Nicoletta Bocca e gli eretici del vino

di | 23 Settembre 2012

[pubblicato sull’Unità del 23 settembre 2012]

Nicoletta con il padre, Giorgio Bocca

Nicoletta con il padre, Giorgio Bocca

La vendemmia più che incipiente, con le sue stime al ribasso del dieci per cento sulla produzione del 2011, accalora grandi commercianti e vinificatori di quantità. I trabocchetti del clima estivo e dispettoso hanno rovinato la festa a chi fa affari col prodotto sfuso, pompa migliaia di ettolitri di vinello di bassa tacca nei container e lucra sui centesimi al litro con la stessa noncuranza adoperata dai compratori per trattare le partite di pesche di terza scelta in arrivo dalla Spagna e smerciarle negli ipermercati. Esistono però sacche di resistenza in cui ragionare di cifre, di rese per ettaro, di tecnologia enologica ed economie di scala è il male assoluto.

Piccole riserve di pensiero contro la corrente: come a San Fereolo, su un cocuzzolo ai margini delle colline del Barolo, comune di Dogliani. Se la crisi c’è, ben venga. Qui, esposto ai quattro venti in borgata Valdibà, il vino non è una bevanda alcolica fermentata da misurare in damigiane, il successo non si calcola con modelli matematici e il produttore, anzi, la produttrice non ha le scarpe lustre del venditore di aspirapolveri, nonostante fosse conosciuta come la donna avvolta in veli di chiffon e lavorasse a Milano nell’ufficio stampa di Giorgio Armani. Mentre racconta il suo trapassato, un colpo del vento di Langa dà lo slancio all’anta e schiaffeggia una pila di libri sul davanzale. Sono tutti del papà. Lei raccoglie e posa sulla sedia con affetto, chiamandoli «ragazzi». In cima resta Italia anno uno Le campagne senza contadini, le città senza operai. Scelta radicale quella di Nicoletta, unica figlia di Giorgio Bocca. A San Fereolo è inutile cercare l’erede del grande giornalista, scrittore e partigiano. Una cascina e una cantina sono il senso della vita per una signora nata dall’amore impossibile tra Vivienne Stapleton Henthorne, danzatrice della Scala dello Yorkshire, e l’Antitaliano.

Dall’Inghilterra, passando per la Milano da bere, il suo volo ha trovato riposo sui ciottoli di un borgo nel profondo sud Piemonte. Una collina più in là si stagliano i poderi Einaudi, già rifugio e fardello del presidente della Repubblica che nel settennato da primo cittadino d’Italia non mancò una sola vendemmia. Miss Bocca, che non conosceva la differenza tra un filare e un filo di Scozia e ora pare una creatura mai uscita dal perimetro delle vigne, staccò la corrente alla sua prima esistenza in una giornata. La penna di papà non aveva trattenuto un articolo feroce, condito da informazioni di natura insider, e Armani chiuse la porta. Trasformò una tenuta graziosa per i weekend fuori porta, comprata coi soldi del regalo di nozze, in un progetto di rinascita senza tulle. «Mio padre sperava facessi un buon matrimonio. Ne feci uno, per i suoi canoni, pessimo»: con l’artista Zoppetti, che dipinge olii su tela. C’era una splendida cantina in una zona quotata, il padre vide una lapide col nome di partigiani fucilati e si scurì. In un posto in cui sono stati ammazzati dei partigiani, sentenziò, non ci avrebbe messo piede. Furono sposati da Franca e Bartolo Mascarello, il vignaiolo protestante e geniale dell’etichetta «No barrique no Berlusconi». E la quotidianità richiuse lo strappo col padre. Qui la vigna non è celebrazione nostalgica: Bocca si è fatta assorbire, lei dice «inghiottire» dal lavoro. I suoi bambini di vetro, figli dell’agricoltura biodinamica, sono impegnativi.

Come il Dolcetto, vino dalla fama falsa e sciocca: gli incompetenti si attendono un gusto facile, da dessert. È cambiata, anche fisicamente: gli anelli non le entrano più, dodici ettari da coltivare in pendenza segnano e questi sono giorni di vendemmia. Quantitativamente, dicono, sarà la più scarsa raccolta nazionale dal 1950, con flessioni dal 5 al 20%. Si produrranno 40 milioni di ettolitri di vino, che restano molti. Fin troppi, sostengono i bastian contrari come lei. Nel basso Piemonte, che non si è risparmiato nella corsa selvaggia all’arricchimento da vino, i nomi dei signornò più in vista sono noti nell’ambiente: il veterinario vinicolo Beppe Rinaldi di Barolo, il maestro del passito Ezio Cerruti di Castiglione Tinella, Cappellano di Serralunga, Ferdinando Principiano di Monforte. Ogni primavera il manipolo di resistenti si riunisce in piccole fiere nella piana veronese (Vini Veri, Vin Natur) che assediano, anche fisicamente, il pensiero unico di Vinitaly. Se il prezzo dell’implosione dei mercati è il sacrificio dei vinacci industriali da un euro al bottiglione, nessuno tra loro piangerà. E già preparano le barricate contro l’ottuso regolamento europeo che liberalizzerà dal 2015 l’impianto di nuove vigne, un far west che farebbe esplodere il mercato allagandolo con prodotti di scarsissimo pregio e nessuna personalità. Gli eretici del vino hanno un altro modo di concepire il lavoro della terra, con una presa di possesso rispettosa della campagna, Bocca la chiama «una questione di accudimento: qui relativizzi, cresci convinto di poter amministrare il mondo, poi affondi le mani nella terra e capisci la proporzione delle cose, la tua piccolezza».

O la piccola grandezza: in un ultimo, minuscolo dialogo di congedo tra un padre morente e una figlia fuggita dal mondo che conta, l’Antitaliano contravvenne alla solita avarizia sentimentale. «Il tuo Dolcetto è veramente buono. Anche meglio di un Barolo». Difficile non chiamarla una benedizione.

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