Afterhours – Ritorno al passato

di | 17 Marzo 2014

[pubblicato sull’Unità di domenica 16 marzo 2014 – La fotografia in copertina è di Ilaria Magliocchetti Lombi]

after1La casa della festa di Hai paura del buio? è mica per caso il museo del Novecento, sghembo come la loro discografia: l’iperrealismo proletario del Quarto Stato di Pellizza da Volpedo condivide la stanza con i bronzi scorticati di Boccioni, consacrati al mito della velocità. «Del resto l’avanguardia l’abbiamo fatta un po’ pure noi», scherzano gli Afterhours, a quindici anni (più due per compilare la lista degli invitati) da quel capolavoro metropolitano di album, considerato il miglior disco indipendente italiano dell’ultimo ventennio.

La rock band milanese, in quel crepuscolo di ‘900, pativa l’affanno giovanile da precariato del musicista alternativo e percepiva la sensazione di una fine imminente: troppe pacche sulle spalle gratis, pochissimi soldi per campare, nessun contratto da firmare. «Le case discografiche volevano solo doppioni dei Litfiba» ma il talento tormentato di Manuel Agnelli volava altrove: la sfacciata Elymania, l’eterea Voglio una pelle splendida cozzavano con il Festivalbar e le giornate in piazza di Mtv, affollate dai fan dei canzonettari. Col senno di poi, aveva ragione lui, con la sua intransigenza artistica.

Ecco perché la non-occasione di celebrare un gioiello del rock italiano vecchio di 17 primavere ha raccolto una infinità di ospiti: gemello al disco rimasterizzato, c’è un Hai paura del buio? cantato e suonato con mister Mark Lanegan, Samuel dei Subsonica e Giuliano dei Negramaro. E una schiera di accoppiate stravaganti e felicissime: Eugenio Finardi ha reinterpretato una versione incantevole di Lasciami leccare l’adrenalina, Edoardo Bennato si è riscritto il testo dissacrante di 1.9.9.6, i suoni del maestro Robert Wyatt accompagnano Cristina Donà.

E Piero Pelù, proprio lui, storpia e ingigantisce le vocali su Male di miele: un piacevole contrappasso, per Manuel Agnelli.
«In un certo senso lo è, ed è stato proprio Piero a chiederci di poter cantare quella canzone. In verità non ci aspettavamo che quasi tutti ci rispondessero di sì… Avevamo anche altri desiderata (ride, nda) ma alcuni, nel frattempo, sono morti».

Nel giro di pochi anni voi usciste con Germi e Hai paura del buio? ma di quel periodo restano anche gemme dei Csi, dei Marlene Kuntz, dei Casino Royale, che resistono meravigliosamente all’invecchiamento. Coincidenze?
«Smentirei la mia fama di presuntuoso se dicessi di sì. La nostra è stata una generazione particolarmente prolifica; siamo anche stati fortunati, ereditavamo scampoli della controcultura degli anni Settanta. Però sapevamo come reagire alla mancanza di spazi e di opportunità, anche se lo facevamo davanti a 15 paganti a concerto – che poi diventarono 800, dopo quel disco, ma non potevamo certo saperlo. Ora no, sembra che nessuno sappia come muoversi».

Da qualche anno la musica “pensata” è per nicchie quasi atomizzate, il Duemila fornisce cibi precotti: si fabbricano cantanti in tivù, come i cuochi. Ora, pure gli scrittori.
«Ed è un cimitero della creatività. Succede non solo nel nazionalpopolare, ma anche nella cosiddetta scena indipendente, che difatti mal sopporto: oggi tutti suonano meglio, le produzioni sono di qualità superiore, eppure l’involuzione della creatività è evidente. Tutti hanno una paura fottuta di essere diversi, di cambiare una virgola della ricetta imposta; allora il talento era più libero, anche di sbagliare».

Nel 1997, giù di lì, germogliava Internet.
«Ed è stato un problema. Fino ad allora le cose dovevi dirtele in faccia, rischiando di prenderti una testata e assumendoti la responsabilità di essere sincero. Del resto, non c’erano alternative al rapporto diretto. Per cui le provocazioni degli Afterhours, i costumi, la parolaccia, il linguaggio schietto, anche la volgarità gratuita che apre questo disco non erano così rivoluzionarie. Adesso si resta chiusi in casa, dietro una tastiera. Noi avevamo l’eroina, oggi c’è Internet. Che ha dei tratti simili: apparentemente liberatoria, di fatto ti tiene in gabbia».

È una dichiarazione di guerra alla Rete?
«Certo che no. La pistola non spara mai da sola e Internet è un mezzo meraviglioso. Siamo noi, come al solito, che prendiamo invenzioni stratosferiche e le roviniamo perché le usiamo malissimo, ci mancano responsabilità e consapevolezza».

Siamo in faccia a quel finestrone su piazza Duomo, al civico 19. L’ufficio di Bettino Craxi. Gli Afterhours cantavano Rapace e Dea mentre crollava un mondo costruito sulle tangenti. Non sei mai voluto essere un autore di denuncia ma la realtà emotiva che raccontavi era legata al clima sociale di quegli anni?
«Sì. Quella era una Milano spietata, che da adolescente ho vissuto malissimo e combattevo. Io odiavo Craxi, odiavo i socialisti. Col senno di poi, erano dei ladroni eppure persone con un briciolo di senso dello Stato. Si arricchivano con la politica ma non erano imprenditori riposizionati per mero interesse. Erano troppo intelligenti, quindi troppo arroganti, il loro “pane e giochi per tutti” era esagerato; ma l’idea sociale che proponevano era migliore di quella odierna. Né, sinceramente, avrei mai pensato che un giorno sarei arrivato a dire una cosa simile».

Mettete in scena canzoni del 1997 in uno show quasi teatrale, con quegli stessi abiti anni ’70, i completi da gangster, i travestimenti. Ma non si percepisce l’atmosfera dell’amarcord.
«Forse è perché non siamo mai stati autocelebrativi e invece, stavolta, abbiamo deciso di fare festa. Ma non con il funerale a un disco morto: l’unico modo di farlo rivivere era la forma di uno zombie, violentarlo aprendoci a collaborazioni eterogenee, che ci sono piaciute molto. Suonarlo dal vivo, con gli stessi arrangiamenti, ci piace moltissimo».

Dall’entusiasmo con cui suonate si avverte ancora una grande fame artistica. Tu sei non solo l’anima degli Afterhours ma fai il produttore, hai da poco chiuso il Festival intitolato a questo album e riapri con il tour di HPBD con collaborazioni ponderose…
«È che ho un approccio calvinista alla musica, in un Paese corroso dal cattolicesimo: il senso di colpa, il volare basso, il non osare, l’ipocrisia. Ma se io salgo su un palco e penso di poter raccontare storie interessanti, anche solo per dieci persone, è chiaro che non posso essere umile».

A proposito: Padania compie due anni. I bioritmi degli Afterhours suggeriscono che…
«Quello è il nostro passo: un disco ogni tre, quattro anni. Sostanzialmente, quando abbiamo qualcosa da dire».

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