Appunti su un mestiere moribondo

di | 29 Giugno 2014

Il direttore del Guerin Sportivo, Matteo Marani, ha affrontato in un post sul suo blog la vexata quaestio della malattia terminale di cui il giornalismo sarebbe vittima. In realtà, più che la sintomatologia e un auspicato trattamento medico, ha provveduto alla più infausta delle diagnosi: il nostro mestiere è morto, Internet ha contribuito ad ammazzarlo, mettersi in testa di fare i giornalisti nel 2014 è da folli e, oggi, il giornalismo è diventato un circo Barnum di «collaboratori, scrittori, appassionati, free lance, questuanti, creativi, comunicatori, gente che si arrabatta da mattina a sera, tutte persone che messe insieme non fanno uno stipendio». Non ci sono possibilità di sopravvivenza, in una professione che ormai si fa «12 ore al giorno chiuso in casa propria, nella stanza da adolescente coi genitori in salotto, a confezionare centinaia di pagine per i siti, con un concetto del lavoro che mi ricorda i cinesi nei sottoscala di Prato. Anzi no, perché almeno alcuni di quelli alla fine sono arrivati a comprarsi le aziende da cui prendevano il lavoro. Un proletariato intellettuale, per dirla con Pasolini».

Bene. Marani è del 1970, io del ’76 ma quei pochi anni credo scavino un fossato: lui è entrato nei giornalismo prima di Internet o, come la chiama Nick Cave, «la tragedia di Internet». Io, dopo. Senza pretese di indurre, dall’analisi di due casi, un andazzo generale, si può dire che Marani abbia – credo – seguìto la trafila classica dell’aspirante giornalista (laurea, scuola di giornalismo, lavoretti, praticantato, assunzione). Per contro, io vanto (ehm) un curriculum dal Dna digitale: laurea, contratti a progetto, partita Iva (no: per il vero, ebbi un’unica proposta di assunzione con contratto da praticante, nel 2005. La rifiutai per tutta una serie di valide ragioni e credo a tutt’oggi sia stata la miglior scelta della vita, benché non mi azzardi a consigliarla a chicchessia).

In ogni caso, ciò che mi ha colpito maggiormente di quel post, più rassegnato che disincantato, è stata la fiumana emotiva di segnalazioni, retweet e copincollature. Curiosamente provenienti, almeno in gran parte, non dalle vittime della peste del giornalismo, cioè i parìa della collaborazione a prezzi da manovalanza pakistana, ma da un plotone di giornalisti contrattualizzati. Quelli, cioè, che dalla loro stanza a Fort Knox – salvo prepensionamenti e crisi aziendali, ormai purtroppo tutt’altro che rare –  chiosano i pensieri di Marani con frasi accorate e sentenziose: “Ecco il pezzo definitivo sull’argomento giornalismo”, o “Leggete Marani: non una parola di più da aggiungere, se non 90 minuti di applausi”.

Per carità, mi accodo di buon grado al coro dei plaudenti. Ciò che Marani scrive è tutt’altro che sbagliato ed è saggiamente disincentivante per chi ancora vagheggia il sogno del giornalismo d’antan. Ma, a mio modo di vedere, quella che viene offerta è solo una fetta della torta acida che ci sta mandando tutti quanti, chi prima chi poi, all’ospedale con sintomi di varia gravità.

Certo: il giornalista-sacerdote, come efficacemente definito dal direttore di Linkiesta Marco Alfieri in un dibattito sui new media, è morto stecchito. Kaputt. Quell’ectoplasma che – sfruttando per decenni, sostanzialmente, un gap strutturale di accesso alle informazioni rispetto al cittadino lettore – arriva caracollando in redazione per la riunione, poi esce, torna alle quattro dopo il pranzo dall’oste, telefona al collaboratore per fargli scrivere il pezzo e, se proprio gli va male, se lo scrive da sé pasticciando due agenzie e trapiantando un cappello introduttivo (e nel mentre beve sei caffè, cazzeggia, si legge la concorrenza ma, costi quel che costi, esce in tempo per la cena e la partita delle 20:45) è defunto. Lui e i suoi tremila euro puliti al mese più ticket restaurant, telefono e chiavetta aziendali, ferie, malattie, scatti automatici, Tfr e budget per l’aggiornamento professionale speso in cd, dvd e finti stage formativi alla Cbs (dove lavorano da dio e si impara un sacco, ma soprattutto a Miami si fa il bagno pure a marzo). Quel giornalismo senatoriale, legato a un contratto di concezione novecentesca e dalle blindature anacronistiche, se non grottesche, è andato. E nessuno piangerà, al suo funerale.

Avvertenza: non mi interessa fare il sindacalista degli sfigati, per la carità. Anzi, so di essere mediamente percepito come un insopportabile snob proprio perché considero una buona maggioranza della pletora di aspiranti giornalisti nient’altro che una suburra di mediocri, accattoni, pescivendoli col talento degli zappaterra (esagero appositamente, tanto per chiarire la posizione). Ma se ci siamo (rectius, vi state) svegliando con l’acqua in casa, limitarsi a dare la colpa al clima impazzito è un po’ troppo comodo e, soprattutto, rappresenta solo un capitolo della saga.

Un giornale per cui scrivo non si è peritato di accollarsi, per 24 pagine da riempire, circa 60 dipendenti, un direttore e più vice. Facciamo i sempliciotti: decurtando del 30% lo stipendio netto del vertice della piramide, quel giornale potrebbe ricavare 10.000 euro al mese, mal contati, di borderò da destinare ai collaboratori, oppure di foraggio per agevolare l’ingresso di giovani da formare in redazione (da minimo retributivo contrattuale, il praticante acchiappa la bellezza di 1.100 euro al mese, quindi ne costa circa 2.000 all’azienda, sicché ce ne starebbero cinque). Per quanto Roma sia cara, credo che con una paga calmierata a 6-7.000 euro si possa trovare il modo di arrivare a fine mese. Eppure, quando mi arriva notizia di uno sciopero, è sempre in ragione di una vertenza contrattuale (loro), di una crisi del management editoriale (loro). Mai per i collaboratori che, terminata l’assemblea, i poveri contrattualizzati chiamano per farsi recapitare il solito pezzo scritto da casa, pagato un decimo del costo sostenuto dall’editore per il loro lavoro redazionale (pezzo che viene liquidato, peraltro, con tutta calma e tempi da pubblica amministrazione; ma se ritarda una mensilità agli assunti, in men che non si dica si torna sulle barricate, in difesa della libertà di informazione).

Solo che, e vengo al punto, finché lo tsunami della crisi e «la tragedia di Internet» hanno mietuto vittime al piano terra, quello dei precari-sfigati-morti di fame, al sesto piano (quasi) tutti hanno fatto finta di niente. Nei giornali più venduti, dal Duemila in poi, le cosiddette firme hanno levato barricate contro gli editori che iniziavano a chiedere impegno sul web. La risposta corale suonava più o meno così: “Col cavolo, che ci fate scrivere sull’online. Volete anche il pezzo per il web, che ci costa fatica in più e professionalmente è pure squalificante?  Pagatecelo a parte, oppure ciccia”. Professionisti che si sono regolarmente disinteressati a quella stanzetta in cui “i ragazzi dell’online” trituravano notizie, spesso scritte in italiacano e senza alcuna contezza dei rudimenti del giornalismo, perché tirate giù da lavoranti pagati come turnisti da call center e invitati a fare quantità, a buttar dentro ai tremila all’ora la foto del palazzo incendiato un secondo prima del concorrente, e se poi il titolo era “Palzazo icnediato a Roma, è paura” pazienza: l’importante sono i clic. Quando lavoravo a tempo pieno (co.co.co, ça va sans dire) a Eurosport-Sportitalia, ricordo che la redazione web non godeva esattamente della dignità di gruppo di persone: se serviva una notizia, l’anchorman di turno urlava verso il soppalco “Sitoooooo!”. Io ero tra i privilegiati, i commentatori tivù, eppure mi vergognavo di quel costume. Ora si scopre che “Sitoooooo!” ha corroso le gambe del tavolo, il pubblico ex pagante ha imparato (tragicamente) a fare a meno delle notizie pagate (“tanto vai su Google e trovi tutto”) e tra poco quasi nessuno mangerà più, tra i giornalisti.

Del resto il motivo per cui, come dice Marani, «è passato il concetto che la comunicazione è gratis», circostanza incontestabile, non penso risieda in qualche mutazione genetica anomala e scientificamente inspiegata di cui è stato vittima il popolo italiano. I responsabili hanno dei nomi e, tra quelli, ci metto volentieri tutti quei giornalisti che, come dice saggiamente Stefano Semeraro (La Stampa) si sono venduti agli editori per un piatto di lenticchie. Ora che sono finite le lenticchie e stanno sparendo pure i piatti, si levano pianti ed è tutto uno stracciar di vesti. Pensarci prima?

Eppure, a ben vedere, quello che Marani chiama «popolo smisurato» di aspiranti giornalisti trattati peggio dei lavavetri, esiste anche (non solo: anche) perché c’è più di qualcuno che ha pensato bene, per un bel po’ di tempo, di sfruttarlo in cambio di una pia illusione, salvo rendersi conto troppo tardi di aver accolto in casa il proprio assassino. Diversamente, per dirne una, non mi saprei spiegare la figura dell’inviato a proprie spese. Che non è figlio di una pioggia di asteroidi, ma una figura sdoganata e avallata da una messe di direttori (quindi giornalisti) che, pur di mantenere il loro sedere al caldo e il loro bonifico mensile al sicuro, ha accettato di svendere la propria testata permettendo all’editore di rapinare il borderò e di aprire la porta della redazione a cani e porci (a patto che fossero abbienti a sufficienza da pagarsi le trasferte) in cambio di un accredito e della firma sul giornale, da mostrare a parenti e amici. Con l’avvento del web, la pratica è diventata capillare. Quando mi è capitato di ascoltare lamentazioni, da parte di caporedattori o assimilati, sul trattamento da spaccapietre riservato ai poveri free lance, a volte ho domandato: sì, ma tu quanto paghi i tuoi pezzi? E gli articoli sul sito, li pagate? Solo uno di loro, Marco Lombardo del Giornale, non ha esitato (“Io li pago il giusto e non accetto volontari sulle mie pagine”). Gli altri, mediamente, tra un “ehm”, un “mah”, un “non decido io” e un “oggigiorno devi puntare a sopravvivere”, hanno svicolato. Perché sanno che pure da loro c’è lo sfruttamento selvaggio a 5 euro al pezzo, o che l’ossimoro del volontariato coatto  è la quotidianità, o che qualche inviatello nella versione più à la page (cioè a proprie spese) lo piazzano, in quelle trasferte che l’editore non digerisce “perché tanto c’è Internet”.

Nel mentre, ovvero nello stesso tempo in cui la Rete erodeva lettori al cartaceo e la crisi faceva sprofondare il fatturato delle inserzioni pubblicitarie nella fossa delle Marianne, in Germania i tre maggiori gruppi editoriali investivano 10 miliardi di euro nell’innovazione digitale. Oggi, ricavano circa la metà del loro fatturato proprio dall’immateriale del web. Guarda un po’ che fenomeni. I nostri editori, invece, così lungimiranti da non aver voluto cacciare una moneta bucata per 15 anni al grido di «facciamo il sito coi cascami della redazione», sembrano svegliarsi solo ora: e allora via, tolgono il punto-it dichiarando che non esiste più separazione tra edicola e web, rifanno il progetto grafico, lanciano l’integrazione tra carta e smartphone. Ma se è vero che il giornale in edicola sta sparendo – così come stanno evaporando le edicole – non è necessariamente vero che l’informazione fatta da professionisti sia destinata al de profundis.

La soluzione forse esiste, e potrebbe essere quella che ha indotto capitalisti di ventura come Jeff Bezos a comprarsi testate storiche e decotte come il Washington Post, e a inventarsi un’idea nuova di giornale. Uno di carta, scritto da una redazione compatta di professionisti di alto profilo, in grado di produrre contenuti esclusivi sfruttando la reputazione di un marchio conosciuto; accanto, una serie di società collaterali dedicate al resto del mondo informativo (il sito-madre coi suoi micrositi satelliti dedicati a comunità specializzate in varie materie, la radio, la web tv, i lavori multimediali e, vivaddio, pure le marchette palesi, cioè i redazionali) in grado di generare profitto. Da noi, tutt’al più, si è fatto un minestrone di inchieste di D’Avanzo impaginate sotto la gallery delle tette di Belen o del gatto più grasso del mondo. Poi ci si lamenta che i clic non generano fatturato. Ma ci vorrebbero tanti Brera, tanti Montanelli, personalità che all’occorrenza corrono nell’ufficio dell’editore e gli ribaltano la scrivania, se si tenta di far loro ingoiare ciò che risulterebbe indigesto pure per un dinosauro: il lavoro gratis, la chiusura delle trasferte, il baratto di un abbonamento a Sky in redazione come surrogato degli inviati, la retribuzione zero degli articoli per il web. Sono battaglie che in tanti, in troppi tra i colleghi di Matteo Marani hanno o rinunciato a combattere, o si sono ben guardati anche solo dall’iniziare.

Poi, è vero: Marani lamenta, giustamente, il malcostume dell’autopromozione. Ha ragione: oggi, e lo scrive uno come me che indulge spesso nella pratica dell’onanismo professionale, bisogna essere dei giornalisti autopromoter. La circostanza, salvo i casi di narcisisti ed esibizionisti, è francamente odiosa (ma diffusa ben oltre il giornalismo: ho amici produttori di vino che un tempo vivevano sul passaparola tra brianzoli e svizzeri; oggi, per vendere la metà delle bottiglie, devono taggarsi su Pinterest e frequentare fiere a Cape Town e Shanghai). Non a caso, il caporedattore centrale del Corriere non ha alcun bisogno di mettersi in vetrina nella Amsterdam della comunicazione, Twitter; se lo fa, e lo fa per diletto, ha sì e no i follower di mio cugino, eppure non se ne preoccupa. Se, invece, sei un free lance e devi pubblicizzare i tuoi lavori, ti tocca diventare l’ufficio stampa di te stesso. Ma anche qui: chi è che stende tappeti ai fenomeni di Twitter e Facebook offrendo rubriche, spazi, ospitate e, talora, pure facendo scrivere libri ai tronisti dell’informazione, assoldati a patto che raggiungano i diecimila seguaci? Chi lo decide, di dare una penna in mano a chi vince un talent show, forse il parìa?

Umberto Eco (pre)disse bene: il lavoro te lo devi creare, poi far sì che ti renda qualcosa. Come? Non certo mandando il CV ai direttori spiegando che sarebbe tanto bello fare il giornalista e facendosi il segno della croce: ha tanto senso quanto comprarsi una Lettera 22. Ma la busta a Babbo Direttore, a ben vedere, non funzionava più neanche nel 2000. Per conto mio, non ho puntato all’assunzione ma alla formazione, ciò che è cronicamente latitante nei secoli dei secoli, peraltro non solo nel nostro mestiere. Perché, mi permetto di dire, di gente che bussa ce ne sarà senz’altro molta (del resto, questa è una professione storicamente appetita giacché offre il sogno di essere pagati per le proprie passioni) ma di gente brava ce n’è sempre stata mica tanta. Poi, chi lo sa: forse il direttore Marani è particolarmente fortunato (o dannato, a seconda della prospettiva) nel ricevere giornalmente CV di alto profilo di ragazzi «bravissimi e preparatissimi, laureati e poliglotti», tutti destinati alla disoccupazione o alla rinuncia nei rispetti di una legittima aspirazione a vivere di scrittura o di voce. Però, finché ho lavorato a tempo pieno in redazione (Il Tennis Italiano, 3 anni; Eurosport-Sportitalia, 3 anni) di curricula ne leggevo quotidianamente, siccome arrivavano a info@eccetera. La maggioranza assoluta meritava il cestino dopo tre righe. Avevo preso anche a conservare i “migliori” con l’idea della compilazione di un perfido stupidario, poi fortunatamente abbandonata. Mi si perdoni la presunzione, insomma, ma se si è sufficientemente bravi (e non sfigati come Paperoga: lungi da me il pensiero di vivere in una società equa e aperta alle pari opportunità, il culo serve senz’altro) tendenzialmente si troverà, anche in questi tempi disastrati, chi sarà disposto a pagare (poco, precariamente, tutto vero) i tuoi studi, la tua preparazione, le tue competenze. Non col posto fisso, certo. Proprio in queste settimane, però, mi ha chiamato un illustre collega, uno di quelli che il 95% del popolo dei giornalisti ha invidiato con la bava alla bocca per trent’anni: probabilmente, costui sarà una vittima dell’affare Recoletos di Rcs, che sta passando col falcetto a estirpare decenni di stipendi dopati nel lugubre tentativo di rimediare a investimenti disgraziati. Oggi, manco a dirlo, sono sinceramente dispiaciuto per lui. Fino a ieri, però, quando la crisi dell’editoria era quella cosa di cui si scrivevano articolesse affacciati a una finestra, vista via Solferino, in un palazzo storico appena venduto a un fondo di investimento yankee, e soprattutto con la stessa partecipazione emotiva di un pezzo sulle lune di di Urano, sembrava che il problema non riguardasse il mondo degli esseri umani. Anzi, un minuto dopo si protestava disinvoltamente perché il Cda aveva ridotto il parco macchine destinato ai giornalisti. E lo si raccontava a me, uno che gratis non ha mai ricevuto – se non dopo adeguate lamentele – un buono carburante da 10 euro e che i fringe benefit non capiva in quale mondo fossero mai stati inventati, sicuramente non il suo.

Mi dispiace, insomma, che Marani abbia preso a incoraggiare indiscriminatamente l’abbandono agli aspiranti giornalisti. A meno che la memoria non mi inganni, peraltro, l’ho conosciuto un paio di anni fa, quando mi consegnò il premio Dardanello:  un riconoscimento nato (credo) per offrire un messaggio, che esiste ancora una bolla di ossigeno per chi è giovane e vuole (o sa) lavorare bene. Quindi ci crede ancora e, forse, il suo è stato lo sfogo di un momento di particolare e comprensibile amarezza. Mi permetterei, da free lance che parla a un direttore, un consiglio non richiesto: continui pure a rispondere la stessa cosa alle capre e fauna assortita, perché il concetto criminale, osceno per cui “tutti sono giornalisti” in virtù della tecnologia che ha azzerato le difficoltà di struttura è semplicemente una follia: aprire un blog con le sembianze di un magazine costa dieci minuti di tempo e zero euro a qualunque smanettone. Ma dica a quelli bravi, a quelli davvero bravi, di provarci sul serio: proprio come ha fatto lui, mettendo in conto qualche anno di fame e l’alea di una professione che sta attraversando una crisi devastante. Non firmeranno mai un contratto a tempo indeterminato – ma quello è in estinzione anche negli uffici dei commercialisti, figuriamoci nelle nostre sempre più sparute e inutili redazioni. Dovranno lavorare più di lui per guadagnare molto di meno, toccherà loro costruirsi una o più competenze vere e lottare per mettere insieme un numero sufficiente di collaborazioni. Non tutti sono disposti al precariato cronico, certo. Ma se ce la faranno, anche per loro ci sarà un posticino in paradiso: magari in ultima fila, senza hostess e snack compresi nel prezzo, ma sarà comunque valso tutta la fatica del mondo. Perché, come mi ha detto qualche giorno fa un giornalista che mi onora della sua amicizia, non può morire tutto. Come non verrà sopraffatto il bisogno della notizia, così sopravviverà (cito) “una forma di giornalismo o di scrittura, in qualche modo ad esse complementare”. Quale, non si sa. Ma ne sono convinto pure io. Quella frase, condita da una “d” eufonica che solo lui sa ancora rendere gradevole, è di Gianni Clerici.

PS Il libro presentato aggratis, semplicemente, non si va a presentare. Come il libro scritto aggratis: semplicemente, non si scrive. O contratto con previsione di un anticipo, o ciao e grazie. Se nel mondo c’è (e c’è, diamine se c’è) chi è convinto che il lavoro intellettuale valga zero, prendiamoci l’impegno di rieducarne uno a testa. Sarà poco, ma tant’è.

 

 

9 pensieri su “Appunti su un mestiere moribondo

    1. Federico Ferrero Autore articolo

      grazie per avermi letto, Frezza.

      ps “appunti” è maschile e plurale

      Rispondi
  1. Leonardo

    Ho letto con interesse questo tuo pezzo. Il P.S. in particolare merita un approfondimento. Quando ci facciamo una chiacchierata, di persona o su skype? Credo potrebbe essere utile, visto che abbiamo almeno 3 interessi professionali in comune: tennis, giornalismo, JFK.
    Leonardo Campus

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  2. Filippo

    Bellissimo articolo.
    Sig. Ferrero, vorrei chiederle un favore se non le dispiace…
    Sono MESI che provo ad iscrivermi a MyMag, e non riesco a capire perchè non mi attivino l’account.
    Ora, come presa in giro, sono stati attivati degli account e non il mio, e questo non ha alcun senso…
    Le sarei davvero immensamente grato se potesse chiedere di attivare il mio account…
    Cordialmente, Filippo…

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  3. Giulio

    Salve, sig. Ferrero,
    Dispiace commentare solo ora, benché l’articolo sia stato scritto a Marzo. In primis la ringrazio (o non dovrei?) perché ha messo nero su bianco la dura verità per quel che riguarda chi si vuole inserire nel contesto del giornalismo, oggi giorno. Tra questi, purtroppo o per fortuna, ci sono anche io, giovane studente romano di Giurisprudenza. Lei dice a quelli bravi (o che si ritengo tali, sarebbe meglio dire) di continuare a provarci. La prego, voglia essere più chiaro: provarci dove, come, quando? Che deve fare un giovane giornalista per portersi aprire delle porte? In cosa deve sperare, nella cosìddetta botta di fato? Bisogna puntare sulla poliedricità, come fa lei, scrivere in diversi ambiti, per diverse testate? Bisogna puntare sulla formazione, o sull’esperienza, e quindi mettersi sotto da subito? Bisogna proporsi a destra e a manca per cercare di avere una qualche opportunità?
    Il problema vero è che questo è un mestiere individuale, e nessuno terrà a dirti che “sei bravo, puoi avere un futuro”; e lei traccia bene questo quadro, ognuno guarda al suo orticello e si lamenta se non gli arriva abbastanza acqua dal cielo.
    Purtroppo io lo sto sperimentando, sono uno di quelli che ha preferito potersi inserire da subito nel contesto giornalistico, scrivendo di tennis per una testata online, seppur senza retribuzione. Ma da lì, mi chiedo, dove andrò a finre? Andrò a finire da qualche parte?
    Nessuno traccia il cammino per gli altri. Per fare l’avvocato devi avere una laurea in Giurisprudenza, fare l’esame per entrare nell’ordine, e se lo passi non è nemmeno detto che trovi lavoro. Ma per fare il giornalista sportivo? Nessuno sa effettivamente che strada deve fare.
    Le dico la verità, ho un po’ di ansia a riguardo, ma non ho paura. Credo di avere talento, non so fino a che punto, ma credo di averne. Quello che le chiedo, se possibile, è di raccontarci come ha fatto lei, come è arrivato ad essere il giornalista affermato che è ora.
    Spero di non passarle inosservato.

    Giulio Fedele
    giulio.fedele@email.it

    Rispondi
    1. Federico Ferrero Autore articolo

      ciao Giulio,
      dici bene quando noti che non esiste una strada tracciata, quindi è inutile cercarla. tanto più oggi: ognuno ha la sua. il problema principale è il crollo dell’editoria (carta, pure tivù): cercare posti di lavoro, intesi come contratti di assunzione o collaborazione fissa, è un puro esercizio di inutilità. la specializzazione è una strada, perché di giornalisti “generici” nessuno ha bisogno. ma specializzarsi in un unico campo (come il tennis), oggi, è davvero una scommessa a perdere. se posso suggerire un accenno di direzione, non dico di cammino: costruirsi competenze che si possano proporre come la conoscenza di più lingue e la capacità di fare più cose (scrivere, parlare, usare gli strumenti della tecnologia).
      secondo me lo studio non va abbandonato perché è vero che anche l’Università partorisce capre, ma la capacità di espressione di tanti giornalisti sportivi è oggi talmente bassa che conoscere un buon italiano (e niente di più) è sufficiente per rischiare di passare per fenomeni.

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