Metanolo Story

di | 4 Aprile 2016

scandalo-vino-metanolo [Reportage pubblicato su pagina99]

NARZOLE (CUNEO). È ancora tutto lì, all’imbocco del paese, sullo stradone dritto che porta in piazza. La villa, i silos: due confetti giganti e un po’ scoloriti, appoggiati a lato del cortile. Ora non dicono più niente a nessuno ma trent’anni fa, proprio di questi giorni, i telegiornali li mandavano in onda più spesso del faccione rassicurante di Pippo Baudo. Fossimo stati in era digitale, c’è da giurare che avremmo trovato la gente in coda, a scattarsi selfie con i vasconi color beige sullo sfondo.

Qui le cose sono sopravvissute alle persone, e alla vergogna di quei giorni. Siamo a Narzole, minuscolo centro alla frontiera delle Langhe; più pianeggiante della Meseta spagnola, non trovi una salita o un vigneto a pagarli. Eppure, nel 1986, Narzole faceva tremila anime, zero grappoli e centodieci aziende vinicole. Era terra di commercianti, di rivenditori, fatalmente di qualche maneggione. I produttori chic di La Morra, Barolo, Monforte, Dogliani, Diano e, insomma, tutta l’élite dei grandi rossi piemontesi, li chiamavano sprezzantemente i narsulìn: che non significava più nativo di Narzole ma sofisticatore, furbacchione, uno quelli che il vino lo fa di notte e mescolando col bastone.

Nei giorni del dramma, la gente al mercato commentava il colore del Tanaro, che qui sterza a destra e scansa il campanile appena in tempo: «Il fiume è diventato rosso». Tutte le aziende con le vasche piene di intrugli, secondo la voce del popolo, avevano una manetta di riserva per scaricare in acqua l’inconfessabile, semmai qualcuno avesse bussato al portone. E dai serbatoi di Giovanni Ciravegna, cavaliere del lavoro classe 1929, nei primi mesi del 1986 uscirono quintali di vino da tavola, ma non per confluire nel Tanaro. Quella robaccia, spacciata per vino da tavola, uccise diciannove persone e accecò o sbriciolò il sistema nervoso di un’altra ventina di disgraziati.

Mezza Narzole si gira, se in piazza chiami Ciravegna; col nome Giovanni, poi, è come Mario Bianchi a Milano. Eppure, quel Ciravegna lo conoscevano tutti: era il cavalier dudes e mès, dodici e mezzo. Perché sapeva, mettiamola così, aggiustare la gradazione alcolica. Se andava bene, i mercanti del vino di bassa tacca mescolavano mosti di bassa qualità, raccattati in Emilia e nel sud Italia; altrimenti, quando la coscienza di qualcuno abbassava la guardia, li tagliavano con un intruglio di acqua zuccherata, carbonati, vinacce filtrate e spacciavano la loro interpretazione modernista del vino in pintoni al prezzo delle patate. L’affare rendeva e, a parte la truffa, nessuno si faceva del male. Gli ispettori avevano già visitato la villa due anni prima, sequestrando del vino e un miscuglio alcolico che, si difese il cavaliere, serviva per il lavaggio delle botti.

Poi, capitò il guaio. Ci andò di mezzo un brav’uomo, senz’altro incauto, condannato anche dalla sfortuna di un cognome impietoso: Vincenzo Odore. Faceva l’imbottigliatore in provincia di Asti e trattava con la grande distribuzione, che campa tirando sul prezzo: due litri di Barbera, bottiglione di vetro e tappo corona, venivano via a 1.860 lire. Mezzo euro al litro al dettaglio: manco la Coca Cola. Quando, il 3 marzo ’86, trovarono morto in casa il signor Armando Bisogni di Milano, invalido e alcolista, sul tavolo della cucina c’era ancora lo scontrino di una spesa all’Esselunga di viale Sarca: 1.860 lire, Barbera del Piemonte. Sembrava morte indotta dal pessimo stato di salute. Passarono tre giorni e un pensionato di 58 anni, Renzo Cappelletti, morì in casa. Causa della morte, ignota. Neanche il tempo di arrivare a sera e si presentarono tre persone al pronto soccorso del Niguarda, con i sintomi dell’avvelenamento: dolori alla testa, nausea, crampi. Il più critico, Benito Casetto, sarebbe morto dopo aver spiegato di aver bevuto un vino da tavola preso al supermercato.

Il 18 marzo, sul Corsera, esce la prima breve in cronaca: intossicazioni alimentari a Milano, forse da vino. Tre i morti. Dall’ospedale, la notizia venne girata ai Nas, che sequestrarono tutte le partite di vino Odore: mica facile, era una ditta che piazzava sul mercato 70 mila pintoni al mese. Le analisi furono sbalorditive: se la legge permetteva fino a 0,16 ml percentuali di metanolo, prodotto naturale della fermentazione, nel Cortese e nella Barbera passati dal laboratorio ne trovarono dieci volte tanto. Prima che lo trascinassero in piazza per i capelli, il signor Odore spiegò di aver comprato in buona fede – e al miglior prezzo – dalla ditta Ciravegna. Era vero.

La mattina del 22 marzo 1986, Giovanni Ciravegna e il figlio Daniele, fresco di diploma alla scuola enologica di Alba, vennero ammanettati a Narzole e tradotti a San Vittore. Come è d’uopo nel nostro bel sistema giuridico, in cui è molto più probabile trovarsi dietro le sbarre prima del processo che non dopo, i due finirono in cella in carcerazione preventiva e i termini di custodia cautelare scaddero addirittura prima della fine dell’istruttoria, ché ai tempi c’era ancora il vecchio codice di procedura fascista.

Tornato a Narzole dopo un anno e mezzo di prigione monsù Giovanni, non più cavaliere, trovò del tutto normale chiedere l’autorizzazione alla camera di commercio per riprendere la sua attività, nonostante il sindaco cercasse cavilli e scappatoie per negargliela. Tecnicamente, ne aveva diritto: solo che, nel frattempo, per la sua ingordigia di denaro erano morte diciannove persone e altre sarebbero rimaste invalide, per sempre. Come il povero Enzo Binotto, un carpentiere di Monza. Lavorava di precisione al tornio e odiava rispondere al telefono perché, se non un cliente rompiscatole, era un sollecito del direttore di banca. Due bicchierate di Odore del Ciravegna al pranzo della domenica, una notte travagliata e lunedì mattina ebbe appena il tempo di arrivare in officina e guardare l’orologio alla parete dell’ufficio, l’ultima cosa che vide su questa terra. Poi i nervi ottici fecero corto circuito. Binotto chiuse baracca, divorziò e finì, ironia della sorte, a fare il telefonista non vedente in una segreteria comunale.

Ma di risarcimenti, quasi quattro miliardi di lire tra privati e Regioni costituite in giudizio, neanche un euro. Nell’unica intervista concessa in vita sua, accordata nel 2006 a una troupe della televisione svizzera, Giovanni Ciravegna si vantò di non aver cacciato un soldo: «Sono io la vittima, mi hanno fregato, io avevo comprato quelle cisterne pensando fosse vino. Versare dei soldi io? Ma neanche per sogno». E la gente sotterrata, e quella che cammina col cane, quelli che hanno perso il lavoro e la gioia di esistere? «A me non mi interessa». Ormai, del resto, era tutto prescritto.

Al processo, celebrato dopo cinque anni (sic), il signor Dudes e mès mantenne la linea: non era responsabile di quell’intruglio rivenduto a Odore, anche lui aveva comprato in buona fede. Il figlio sostenne di essere stato il commerciale, di non sapere cosa capitasse in cantina. Vennero, sì, condannati altri piazzisti non piemontesi (Giuseppe Franzoni, Francesco Ragazzini, Roberto Piancastelli, Romolo Rivola e un paio di autotrasportatori: personaggi quasi mai citati nei dolorosi amarcord) ma rimane che i giudici ritennero proprio i Ciravegna le menti dell’associazione per delinquere. La corte decise che erano colpevoli di omicidio colposo plurimo e non volontario; in Cassazione, combinando i vari reati, diedero 14 anni al padre e 11 al figlio, di cui quattro condonati.

Nessuno confessò, sicché non si capì se quella banda di disgraziati avesse davvero tagliato scientemente il proprio vino con alcol metilico, come si disse, approfittando della detassazione decisa da una legge del 1984 per lo “spirito di legno”, estratto dai tronchi o dal gas metano. Il metanolo è letale: serve all’industria per diluire i solventi, alle auto da corsa della Nascar per fare il pieno. La versione più probabile è che qualche avido debosciato avesse usato rifiuti di distilleria, certamente consapevole della presenza di metanolo ma ignorando – o sottovalutando – il rischio di intossicazione o di morte, in una folle corsa al ribasso per accaparrarsi la fornitura delle catene di rivendita al consumatore.

Era il mondo parallelo del vino, quello da prezzo, da tavola, da osteria: passava di mano un tanto al quintale, restava sconosciuto alle fiere e ai ristoranti. Per il popolino che lo comprava a cestelli era un alimento al costo delle rape, talvolta un vizio per curare il disagio. La cultura del vino, che oggi diamo per scontata, era riservata alle minoranze istruite.
Fatto sta che, se non una rinascita perché persone innocenti ci lasciarono la pelle, la storia del metanolo del 1986 fu un innesco. Nel breve, segò le gambe al mondo del vino: crollò il consumo interno, vennero sospese le esportazioni, la domanda estera si contrasse in misura quasi fatale. Vai a spiegare che il Barolo non era parente di quel liquido violastro.

A farne davvero le spese, però, alla fine furono proprio i narsulìn: i consumatori italiani per primi capirono che il vino non poteva costare quanto la candeggina. Il commercio di vino a Narzole si ridusse ai minimi termini, i pasticcioni sono quasi scomparsi e oggi, per ragioni anche culturali, l’italiano medio beve poco più della metà dei 70 litri l’anno dei tempi, ma beve assai meglio. Abbiamo abbattuto la produzione di bassa qualità e si è moltiplicato il vino Doc; le esportazioni sono esplose, l’Italia ha conquistato il pianeta con i suoi grandi vitigni, del metanolo non si parla più. Le guide, i giornali, la tivù hanno quasi santificato il rito del bicchiere.

Giovanni Ciravegna è morto nel 2013, forse convinto della sua ragione, forse in pace con la sua coscienza. Dal carcere, per completare la collezione di peccati, aveva fatto come Sansone coi Filistei: alla vigilia della condanna, consegnò un memoriale con nomi e cognomi degli ispettori che, per una vita, aveva «unto», come diceva lui, per adulterare il vino in santa pace. Altra gente finì in galera, tra repressione frodi ed emissari locali del ministero. Al cimitero c’è una foto in cui non sorride, accanto a due date: è tornato un Ciravegna Giovanni di Narzole qualunque. Il figlio, scontata la pena, è andato a vivere in un altro paese, a Dogliani, e vende trattori. I morti, invece, sono ancora morti.

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