Raccontare palline viste da lontano

di | 21 Settembre 2016

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A quindici anni mi ero fatto prestare una televisione a batterie. Era una pietra, pesava chili, funzionava con otto pile torcia, in tutta la provincia credo fosse l’unico modello in circolazione. Era di una compagna di liceo straricca: per capirci, veniva a scuola con l’autista e il lunedì parlava di località che fingevo di conoscere, Pila, Megève… Accendevo quel coso da tre pollici nascondendolo tra i quaderni e il vocabolario Rocci, per guardarmi Camporese in Coppa Davis e i pomeriggi di riprese sbiadite del Roland Garros sulla Rai, mentre studiavo per il test di greco dell’indomani. Quello sport che non c’entrava nulla, con me né con la mia famiglia, mi stregava.
Davvero, non avrei mai pensato che un giorno sarei finito a fare proprio quel lavoro, intendo dire le telecronache di tennis. Anche se, già allora, sotto sotto ritenevo profondamente ingiusta l’idea che non mi sarebbe mai stato concesso il privilegio di girare il mondo e di mettermi in testa quella stupida cuffia con un fungo di spugna davanti alla faccia per dire «Quindici zero. Trenta a zero. Quaranta a zero. Gioco per Borg» e prendere un sacco di soldi per dormire negli alberghi di New York lasciando la mancia al portiere in livrea coi bottoni, che in Law&Order conosceva sempre l’assassino, e battere il cinque a Boris Becker incrociandolo davanti all’ascensore.
Invece è successo. Solo che, nel frattempo, è capitata un’altra cosa ancora più improbabile. Non voglio correre alle conclusioni ma è un po’ come quegli incubi in cui inseguite per una vita una donna che non vi potete permettere, che ne so, Grace Kelly, e nel momento in cui finalmente la afferrate ed è vostra, lei si gira ed è Pina Fantozzi.
Quando sono nato, cioè nel 1976, la telecronaca di tennis era una roba molle come i biscotti della nonna col tè al bergamotto. Aveva il pathos del disco che rammenta le fermate sulla linea 18 e quegli insopportabili silenzi che la tivù commerciale ha dichiarato per sempre fuorilegge.
Era proprio un altro mondo: le racchette erano ristrette come retine per farfalle e maneggevoli come tronchi. E il racconto del tennis televisivo era affidato a Guido Oddo, un elegante giornalista incaricato dalla Rai di maneggiare quel gioco minoritario, così lontano dalle regole del pallone e potenzialmente devastante per via dei suoi tempi indefiniti. Uno sport reso improvvisamente merce da mercato rionale dalle imprese di Panatta, che non era un rampollo della nobiltà col doppio cognome e non si chiamava Ranieri ma Adriano, essendo il figlio del custode del circolo tennis Parioli. Gianni Clerici, il letterato altoborghese della racchetta, aveva ribattezzato il povero Oddo «Disguido»: perché la scarsa preparazione, se la materia è specialistica, è una condanna. Tra le tante che mi hanno raccontato, resta indimenticabile una telecronaca di Coppa Davis dell’Italia contro la Bulgaria a Reggio Emilia, nel ’73. Oddo aveva preso a lamentarsi in diretta perché gli organizzatori non avevano provveduto a far indossare ai gemelli Bozhidar e Matei Pampulov un segno distintivo, un laccetto, un calzino di colore differente, essendo i due ragazzi identici. Dopo due set di fastidio, qualcuno gli fece notare che un gemello giocava a tennis con la mano destra, l’altro era mancino.
Se è per questo, capitò anche di peggio: nel 1976, gli italiani non poterono guardarsi in diretta la finale di Coppa Davis. «Non si giocano volée contro il boia Pinochet», gridavano gli antagonisti che accompagnavano le loro sortite con un altro slogan: «Panatta milionario, Pinochet sanguinario». Per farla breve, finì che Oddo e Galeazzi poterono occuparsi del tennis con due limitazioni: senza trasferta, quindi dagli studi di Roma, e senza immagini in diretta ma ospiti di una sintesi serale sul primo canale. Per sberleffo al dittatore cileno: questa era la posizione del governo cerchiobottista Andreotti III, spalleggiata dal direttore del Tg2 Andrea Barbato. Quello fu il primo caso documentato di ciò che viene correntemente definito spoiler televisivo: la gente a casa, quando Panatta e Bertolucci chiusero il match point, stava ancora seguendo le differite; Oddo si avvide del successo, non riuscì a trattenere l’entusiasmo e gridò: «E l’Italia ha vinto, l’Italia ha vintooo!» Arrivarono fiumi di telefonate, gonfie di ira agli uffici di via Teulada: masse di spettatori, infuriati per l’assassinio del lieto fine, volevano la testa del commentatore. I centralinisti passavano le lamentele alla redazione sport e uno, più arguto degli altri, aggiunse: «Aò, regà, ma che avete detto? Che ‘a Democrazia Cristiana ha perso le elezioni?”»
Questo aneddoto me l’ha raccontato l’allievo di Oddo, Giampiero Galeazzi, il primo tenniscronista nazionalpopolare. Quello che accompagnava i miei pomeriggi del ’90 con «Omar Gamborese» e i cinque set di seduta psichiatrica di Paolo Canè, il «turborovescio», lo scambio con tuffo e crollo a terra contro Wilander che ancora oggi mi si increspa la pelle a rivederlo su YouTube e sentire quell’«e poi morire, per dieci secondi».
Oddo e pure Giampiero, col tennis, hanno fatto una vita della madonna. Australia, Parigi, Wimbledon, New York, più la Davis, Roma e il Master. Tutto pagato (tanto), più spese. Del resto, il cronista di tennis con valigia restava una professione tra le più improbabili, con la stessa offerta – almeno in Italia – della carriera dell’astronauta: due posti di lavoro in tutto il territorio, lievitati a quattro con l’avvento di Rino Tommasi e Gianni Clerici sulle reti private, poi cresciuti a sei con la coppia Scanagatta-Lombardi quando nacque Telepiù, otto a voler considerare il fugace duo Pericoli-Pietrangeli su Telemontecarlo.
Il giornalista-telecronista veniva assunto e prendeva pure gli straordinari e gli extra da inviato non per schivare le bombe a Phnom Penh ma, al più, le botte di servizio di McEnroe. Come se non bastasse, in cambio non gli si chiedeva nulla: perché il suo operato restava, se non indiscusso, indiscutibile, fatta eccezione per gli ininfluenti criticoni dei tennis club. Il pubblico non sapeva di Internet, delle e-mail, del dileggio via Twitter e, la televisione ancor più dei giornali, la subiva passivamente. Senza immaginare che un giorno gli sarebbe stata concessa facoltà di fare tap-tap dal divano sulla spalla di chicchessia e riversargli addosso di tutto, dalle rettifiche incarognite ai complimenti alle minacce di morte, che oggi ci spacciano per apertura al pubblico e manifestazione di democrazia dal basso, pure quando lo spettatore minaccia di tagliarti le gomme della macchina perché si è interrotto il segnale del satellite.

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La verità è che andava bene tutto. Se Clerici deliziava con la sua prosa in lombardese e la cultura sterminata, Oddo soleva prodursi in ragionamenti lisergici («Che strani questi inglesi inventori del punteggio, che da quindici passano a trenta, poi a quaranta e non quarantacinque»). Galeazzi, per conto suo, ignorava tutto ciò che la Rai non trasmetteva più dagli anni Novanta in poi, cioè quanto succedeva prima del torneo di Roma e dopo il Roland Garros, e non azzeccava un nome, una data o un numero manco a puntargli un forcone alla gola. Ciononostante, le sue mitologiche dirette-fiume da Parigi, condite da respiri sempre più affannosi e analisi tecniche ruspanti quando mancava Panatta a spalleggiarlo, restavano nel cuore. Oggi, se in diretta si cicca l’altezza di Angelique Kerber, si rischia di passare per insipienti e qualcuno è convinto di avere tutto il diritto di chiedere la tua testa.
Bisteccone – soprannome che secondo Clerici è nato da Clerici, secondo Galeazzi da una battuta di Gilberto Evangelisti di Radio Rai – ha scritto un libro, pubblicato qualche mese fa, che racconta quel suo mondo un po’ naïf ma strepitoso, le dirette interrotte alle 18:45 per fare spazio al tigì anche se c’era un italiano al match point, e soprattutto le saporite ore serali trascorse con Adriano alla brasserie Le Pichet, col tavolo accanto occupato dal presidente Mitterrand e i due impegnati a ordinare lo stesso piatto del leader francese, la razza all’aglio, al grido di «Viva la rivoluzione!».
Nel tempo che ho impiegato a raggiungere il pianeta tennis, la vita di quel mondo è stata soppiantata da un altro tipo di esistenza, della quale avrete capito che farei sinceramente a meno. Però è andata così: il classico, una laurea in giurisprudenza presa sbadigliando – a parte l’esame di medicina legale con facoltà di assistere all’autopsia di Baima Bollone, quello della Sindone – e un anno di vita regalato dal congedo militare, che spesi a fracassare l’anima di tutte le redazioni in cui si parlasse di tennis, pur di non finire a far fotocopie di atti in uno studio legale di Alba, la mia città. Finché non venni chiamato da Eurosport, nonostante la erre arrotata e qualche scivolata sabauda sulle vocali, e non mi fu offerta la possibilità di capovolgere i termini di una vita qualunque: farsi dare soldi in cambio di ciò che la gente paga per vedere. Commentare partite di tennis, diventare uno in più di quello zero virgola di uomini benedetti che si mantenevano seguendo in giro per il mondo i match da leggenda di Sampras e Agassi. Scoprii in fretta che non avrei mai collezionato punti millemiglia per quel viaggio in Nuova Zelanda che ho in testa da vent’anni, né raccontato a Sharon Stone le ultime su Roddick, stravaccato in tribuna agli Us Open. E quando gli amici più distratti mi chiedevano come sopportassi la calura di Melbourne a gennaio rispondevo che in corso Sempione, alle tre di notte, scende anche a meno quindici, e capita di doverti aprire la portiera dell’auto con mezzo litro di acqua bollente.

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L’altro giorno, sbagliando strada, sono finito a seguire un torneo challenger: si chiamano così, le competizioni di seconda fascia che vengono frequentate dai giocatori classificati suppergiù dal numero cento in poi. Gente che il grande pubblico dello sport non sentirà mai nominare. Su un campo defilato, nell’indifferenza più piatta pure del signore addetto a bagnare la terra rossa, si allenava un doppista polacco, Bednarek. Faccio questo lavoro da 15 anni, non lo riconoscerei neanche su suggerimento. Eppure, il suo tennis è di livello tale che, nel ’76 ma anche più avanti, Bednarek avrebbe fatto man bassa di Slam, anche con sei chili di piombo legati alle caviglie. Oggi, per sopravvivere, deve risparmiare sulla cena e spero non si renda mai conto della vita che avrebbe avuto, fosse nato quarant’anni prima, perché io della mia sì e, ogni tanto, mi mangio ancora una fettina di fegato.
Nell’era della televisione pre-commerciale la palla sorvolava il nastro a velocità imbarazzanti, perlomeno rispetto ai proiettiloni di Federer e Nadal. I campioni di allora, se li riguardate in un filmino girato a Wimbledon in Super 8, sembrano giocare seguendo una trama decisa a priori: io servo piano di là ma tu rispondi bene in centro, di modo che io possa colpire la volée. Paiono più interessati a non spettinarsi o sgualcire la polo griffata Fred Perry che non a vincere il punto a costo della vita; come viceversa succede nel nostro mondo, dal più scrauso dei torneini sperduto in una steppa uzbeka in su.
Oggi il mondo è clamorosamente rattrappito, aerovie e tecnologie hanno avvicinato all’inverosimile le distanze e reso noiosi come spostamenti in autobus tratte un tempo riservate a quegli sparuti ricconi in grado di comprarsi i biglietto per il Jumbo Jet 747. Oppure ai giornalisti: che a priori dovevano esserci – beati loro – là dove le cose capitavano. Eppure, contro ogni senso di progresso, il reporter e il cronista d’antan timbravano il passaporto una settimana sì e una no mentre il tenniscronista di oggi, se volete vi mostro il mio documento, lo fa rinsecchire nel cassetto. Non si viaggia più, non si riporta niente di non predigerito: perché viaggiare costa pochissimo ma quel poco è diventato comunque troppo, perché tanto starsene a casa oppure on site (quelli della televisione dicono così) è la stessa cosa. Perché le partite di tennis si vedono meglio in alta definizione dallo studio in Italia, che non appollaiati in cabina a New York. Morale: tutti a casa.
Quindi, noialtri commentatori moderni ci nutriamo delle stesse e sempre più rade veline di agenzia a disposizione di tutti e, al più, viene ritenuto bravo chi sa scegliere meglio di altri e tradurre in italiano meno rozzo il materiale di pubblico dominio, pastrocchiando tra blog e social. Se riversi all’ascoltatore una paccata di blablabla, dati a proposito e non, virgolettati rimasticati e stralci di comunicati stampa, aiutandolo a non percepire mai i momenti vuoti, ricevi applausi e complimenti. Qualche anno fa, un caporedattore di un quotidiano affine alla Fiat, nel considerare un premio giornalistico appena vinto da una giovane collega, mi confidò scorato: «Da noi dicono sia la numero uno a scovare le cose su Google. Oh, io tutto avrei pensato tranne che cercare notizie scritte da altri col computer sarebbe diventato titolo preferenziale per fare bene il giornalista». Invece sì: per sapere se si era messo a piovere a Melbourne, quarant’anni fa Oddo alzava il naso dal campo al cielo; ora, grazie all’uso bieco e sparagnino della rivoluzione digitale, tocca sperare in un regista sveglio, oppure attendere un tweet di qualche spettatore che, lui sì, è sul campo, perché magari hanno chiuso il tetto del campo centrale e tu non te ne sei accorto. Nel 2016: se ci si pensa, non ci si crede.

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image-07-08-16-21-51Quando ero all’asilo il giornale costava 150 lire e non si riusciva a immaginare nulla di più avveniristico dell’Altair 8800 – il primo computer che non richiedeva un condominio per l’installazione – eppure il mio era un lavoro fantastico. Sarà stato pioneristico, ma era meraviglioso. Anche se non lo sapevi fare. Ettore Ferreri, lo storico fotoreporter della rivista per cui ho scritto per tanti anni, il mensile Il Tennis Italiano, mi raccontava di avere accolto nel suo appartamento un giovane cecoslovacco di Ostrava impegnato in un torneo meneghino. Uno parlava solo in piacentino, quell’altro rispondeva in boemo: in qualche modo, si intendevano. L’ospite era Ivan Lendl, futuro numero uno del mondo, che da re dello sport avrebbe continuato ad abbracciare il vecchio Ferreri a ogni incrocio in giro per il mondo, oltreché a non capire una parola del suo dialetto. Ken Rosewall, una leggenda del mio sport, quando incontrava Rino Tommasi gli sorrideva e gli dava la mano. Quarant’anni dopo, capita non di rado che l’unico modo per farsi salutare, anche solo da un mezzo giocatore, sia essere scambiati per qualcun altro: per forza, chiuso in uno studio televisivo non puoi fare amicizia manco col ragazzo che mette il caffè nella macchina.
Ferreri mi narrò di aver consumato un pasto in un bistrot parigino e affogato in una boccia di pinot nero le lacrime del rubacuori Victor Pecci: un marcantonio paraguaiano finalista al Roland Garros, eppure affranto. Non già per la imminente scoppola contro l’imbattibile Bjorn Borg, quanto per la fuga della fidanzatina con un altro. Oggi, allo sventurato che voglia ottenere un dialogo con qualsivoglia professionista medio-famoso (per Djokovic e le altre superstar servono più burocrazia e lacchè di un’udienza privata da papa Bergoglio) tocca cucire una trama di autorizzazioni e permessi per tentare di strappare cinque minuti cronometrati in un’asettica sala stampa, sotto sorveglianza stretta di un communication manager, di un media PR assistant e talora di un sedicente «curatore di interessi» pronto a stoppare le domande commercialmente inadatte, cioè le uniche degne di risposta.
La buona notizia è che, più spesso, ci si rinuncia e si scopiazza il lavoro dei pochi viaggiatori sopravvissuti. O si prende la roba autoprodotta dal sindacato dei giocatori, l’Atp, perché la tecnologia è stata maneggiata dagli editori e rivoltata contro i telecronisti: oggi con una linea telefonica Isdn, un decoder digitale con scheda Viaccess e una connessione a Internet, volendo, puoi commentare la finale di Wimbledon e tutti gli sport del mondo da casa tua. Anche se abiti in una cascina di Passignano sul Trasimeno. Certo, ci guadagni in comodità: se sei pigro, puoi restare in pigiama e pantofole e la Duchessa di Kent non si offenderà.

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Non crediate che sia qui a lamentarmi, mentre i miei amici avvocati raccattano quello che nello studio dei genitori era lo stipendio della segretaria. La gente che sta male è altrove. Però si sta come nella savana in secca, mentre un tempo il racconto del tennis era un campo arato, pronto a vegetare. E vegetò: dal 1980 presero a chiacchierare sulle partite, grazie alla tivù privata, Rino Tommasi e Gianni Clerici. Gianni e Rinotto, come Galeazzi amava apostrofarli, perché se offendevano Oddo il linguaggio si appesantiva e diventavano «gli eunuchi del tennis» in virtù dei gridolini dello scriba comasco dal falsetto facile. Messi insieme erano farina con acqua e bicarbonato: la telecronaca lievitava. Rino era ciò che mandava in onda di sé: rigoroso come le sue adorate statistiche, inflessibile e talora feroce, eppure cordialissimo. Se mi sono imbucato per la prima volta in una sala stampa, al torneo di Monte Carlo del 1994, lo devo a lui: si fermava a parlare con chiunque lo chiamasse, dal principe Ranieri al diciottenne con i panini nello zaino e il miraggio di rubargli il lavoro dei sogni. Mi lasciò, dopo che lo sfiancai di domande imbecilli su «come si fa a diventare giornalista», ricordandomi che per lungo tempo era stato l’unico lettore dei suoi articoli, e quella frase mi servì più di trenta curricula spediti a casaccio.
Ricordo che Rino era – o diceva di essere – di estrema destra. A quanti gli chiedevano se fosse stato giusto andare in Cile a giocare la finale del ’76, con un mezzo sorriso rispondeva che lui, in Cile, ci sarebbe andato a vivere. A cena, le poche volte in cui il gap generazionale ci ha fatto sedere allo stesso tavolo e prima che la politica del no-budget facesse finire tutto, Rino soleva ordinare «un primo e un secondo». Agli sguardi interrogativi del cameriere, ribadiva: «Un primo e un secondo»… Era egualitario e rigoroso anche nei pasti. Una sera lo accompagnai, insieme all’inviato della Gazzetta dello sport Vincenzo Martucci, all’albergo di Londra. «Veniamo con te, tanto dalla metropolitana sono due passi». «Duecentotrentotto», rispose. Prima che richiudessimo la bocca spalancata a «o», soggiunse: «In realtà, gli ultimi li ho interpolati perché un gruppo di ragazzi italiani mi ha fermato per chiedermi l’autografo ma, firmando, ho continuato a camminare». Del Clerici autore, columnist (se dici cronista o reporter si arrabbia), cantore sportivo ed ex telecronista si sa e si ammira quasi tutto, quindi vi risparmio cose che magari sapete già. Le autobattezzate «telechiacchiere» con Rino valsero un servizio sul Time, nel quale si tentava di spiegare quel curioso fenomeno di costume per cui certi spettatori italiani fossero più appassionati alla cronaca che non al match stesso; e che, ai pochi benpensanti scandalizzati perché Clerici alludeva alle palle scagliate da Sampras attentando «se non alla vita, alla illibatezza della giudicessa di linea», quello scrittore geniale e autentico dandy replicava in diretta alle prime e-mail della storia televisiva «di andarsene a ranare (in lombardo, andare a caccia di rane nei fossi) perché l’unica volgarità è la mancanza di senso dell’umorismo».
Beato lui, poteva permetterselo. Oggi, se perdi una telecronaca capita che ti telefoni il direttore di banca per quella storia della rata scaduta. Un pomeriggio di dieci anni fa, in coda al mesto ristorante della stampa a Flushing Meadows dove a prezzi passabili trovavi solo panini ghiacciati, mi presentò sorridendo «la mia badamante» mentre finivo un cheeseburger osceno: una splendida ragazza assunta, soggiunse con fare goliardico, con regolare inserzione comparsa sul suo quotidiano, la Repubblica. Con i costi selvaggi del roaming di quei tempi, avevo sì e no il budget per dire «ciao come stai io bene grazie goodbye» alla mia fidanzata che stava a Torino, e non più di una volta ogni due giorni.

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A forza di aratro, diserbanti e trattore, il campo non è più fertile. Lo hanno prosciugato della sua acqua, il viaggio e l’esserci, quindi del capire. Parlare di tennis in tivù o per scritto è un esercizio sterile, non per nulla divenuto accessibile anche a professionalità basse, a ragazzi appoggiati alla comodità della tecnica ma ugualmente vittime della mediocrità. Fosse ancora con noi Beppe Viola, a sentire gli «opera il break», i «sale in cattedra», i «mette un’ipoteca sul set» chiederebbe se il tempo ha preso a camminare in retromarcia.
Nell’ultima sala stampa in cui ho soggiornato, mi son preso la briga di compilare un sondaggio a uso personale. Circa la metà degli accreditati che conoscevo lavorava in cambio di un grazie. Inviati a proprie spese: insegnanti, titolari di agenzie di viaggio, studenti fuori corso, nullafacenti, impiegati di cassa di risparmio, gestori di B&B. Non è questione di appartenenza a un club, io detesto le corporazioni: compresa quella dei giornalisti. Solo noi, in Europa, abbiamo un (dis)Ordine e, non ci fosse, sarebbe la stessa cosa. Comunque: parecchi avevano superato l’adolescenza da troppi anni per venire considerati stagisti e, giacché talora vengo considerato meritevole di un’intervista «per raccontare come si diventa giornalisti», finisco per rispondere cose che non penso e in cui non credo più: che vale la pena provarci, le soddisfazioni, il sogno della passione che si fa mestiere, cretinate del genere. Qualcuno poteva immaginare, ai tempi di Panatta e Bertolucci, che sarebbe finita così?
Volando verso Parigi, un giorno Gianni mi disse quanto gli veniva corrisposto a giornata per commentare il Roland Garros, almeno fino alla fine degli anni Novanta. Ricordo il mio istinto di occhieggiare il portellone del 737. Nelle rare occasioni in cui è concesso mettere il naso fuori casa, gli unici piatti della cucina parigina a misura di rimborso sono compresi nella lista di offerte McDrive sulla phériphérique cittadina. La razza all’aglio di Le Pichet temo continuerò a non poterla recensire.

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Non crediate che la rovina del cronista sia l’unico paradosso del professionismo gonfiato dal turbocapitalismo, perché sareste in errore. Il tennis contemporaneo è un Frankenstein. Per un verso rimane abbarbicato alle più antiquate tradizioni: come il bianco sacralizzato di Wimbledon, esteso alla scelta delle mutande. Proprio così: se sudate e per avventura le rendete visibili, la Buon Costume dei Championships ti costringe a cambiarle a partita in corso. Me lo ha raccontato un giocatore di qualche anno fa, impegnato nelle qualificazioni. Per un altro verso, lo sport che fu recinto esclusivo ed escludente degli aristocratici si è fatto veicolo convinto delle più irruente innovazioni pop: il controllo computerizzato della palla in gioco, la ricerca spaziale applicata ai materiali, le tecnologie alimentare e atletica spinte al parossismo. Nel tentativo, che prima o poi riuscirà, di creare l’atleta perfetto, colui che non sbaglierà mai e forse ammazzerà questo sport. Sicché il rettangolo di gioco è rimasto quello, la rete è tuttora ancorata al centro da una fibbia alzata a 0,914 metri da terra – che non sia non un millimetro in più o in meno – e l’arbitro continua ad annunciare “Ready? Play!” come il suo antenato soleva rivolgersi ad Arthur Gore e Norman Brookes nel 1905, anche se da una parte c’è un bruto ipervitaminizzato e tatuato e, di là, un buttafuori che smoccola e frantuma racchette. Tutto il resto è stato seppellito da una marea di stravolgimenti del quale non sono gran tifoso e, senza tornare alle divise di lino e ai fratelli Lumière, quattro decenni sono ampiamente sufficienti per sentire l’odore di naftalina: il palleggio di Borg e Vilas è alla moda come una Fulvia celeste parcheggiata accanto a un Suv extralarge. E siccome il battito vitale di questo sport è il ritmo della palla, quei tempi andati e così dilatati, oggi sembrano tempi morti.

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Negli anni Settanta e primi Ottanta il tennis, che viveva la sua adolescenza globale ma non era ancora stato sterilizzato, conservava una zona franca di sano cazzeggio che si è definitivamente persa. Un giocatore rumeno dal talento sovrabbondante, Ilie Nastase, si presentava ai tornei salutando con «Hey Negroni!» il tennista di colore Arthur Ashe, «Hey nazi!» tutta la squadra tedesca di Coppa Davis e «Hey racist!» i sudafricani. La birretta col giornalista ci scappava eccome, anche se il campione andava a lamentare un articolo troppo critico o una mancata citazione. Oggi, i giocatori capita al più che si mandino a quel paese su Twitter, saltando a piè pari i giornalisti che incrociano nei corridoi e, solitamente, guatano con la stessa aria menefreghista che si riserva ai compagni di carrozza in metropolitana. Molto più spesso, però, non capita proprio nulla: l’associazione dei tennisti professionisti vieta espressamente ai suoi iscritti – cioè a tutti – di parlare male di un torneo o di dire qualcosa di inopportuno, cioè ogni cosa possa rappresentare una notizia. Giusto un anno fa, uno slovacco di nome Klizan ha rischiato gli introiti di tutta la stagione per essersi permesso di scrivere su Facebook che l’aria di Pechino faceva schifo, e che lì non ci avrebbe mai più messo piede. Dietrofront: prima dell’efficientissimo Minculpop è intervenuto il sindacato dei giocatori, il post è stato cancellato subitamente e a Pechino si è tornato a respirare come al rifugio dolomitico di Sesto val Pusteria.
Ettore Ferreri titolava le sue articolesse “Il tennis visto Agli Us Open ci ha presentato una generazione di americani che sono molto giovani e soprattutto fortissimi”. Vi giuro che era un titolo. Era abilissimo a tagliare i piedi agli atleti fotografati con la sua Nikon e rimase convinto per tutta la vita che pedigree si scrivesse «petit gris». Eppure ha vissuto più Slam lui che cento giovani giornalisti di questo fulgido millennio di ritirata sotto la scrivania e la sua rivista vendeva più di tutti i magazine in vendita oggi nelle edicole sopravvissute, con redditi conseguenti. Insomma: chi era arretrato, chi inadeguato, chi sfigato?

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Prima di trovare la risposta, il mio potrebbe non essere più un problema: un illustre membro dell’Atp mi ha recentemente annunciato la prossima disoccupazione. Non sua, ma mia e di noi tutti figli più o meno legittimi del tennis. C’è un sito che si chiama TennisTv: con 129 dollari e 99 si possono già vedere centinaia di partite, tutto l’anno. Che diverranno migliaia, quando le telecamere si intrufoleranno dappertutto, pure nei borsoni dei tennisti tra un integratore e una banana. Gli appassionati spegneranno la tivù, diventeranno i registi di loro stessi armati di tablet, non sentiranno più l’esigenza di un tizio messo lì a raccontare la rava e la fava e si faranno la telecronaca da sé. A match concluso, si scriveranno e leggeranno il pezzo su Facebook, come fanno già ora migliaia di autonominati analisti, commentatori, esperti e direttori con sedicenti caporedattori convinti che «buona la prima per Federer» sia un ottimo attacco. Ognuno varrà uno e, da lassù, un signore ricciuto, col basco, si fregherà le mani.

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