Come si… nasce fuoriclasse

di | 24 Settembre 2017

[inchiesta per Tennisbest Magazine, giugno 2010]

Questa storia parte da lontano. Da quelle che vengono chiamate le profezie che si autoavverano. A tutti noi, lo sappiate o meno, è capitato di concepirne una. Credete che oggi perderete quella partita, anche se è alla vostra portata. Anzi, ne siete incrollabilmente convinti: non vincerete mai. Finisce che giocate e perdete sul serio. Dopodiché, parlando del match con gli amici, commenterete: ecco, vedete? Ho perso: è andata proprio come dicevo, non poteva che finire così. Ma non avevate per forza ragione. È che, inconsciamente, giocando sicuri di non potercela fare, è molto probabile che abbiate condizionato, in qualche modo, la vostra prestazione: un passante facile messo fuori, un doppio fallo decisivo. Di tanto in tanto, in Borsa, si diffondono notizie incontrollate di tracolli finanziari in arrivo: voce su voce, iniziano a vendersi azioni sull’onda emozionale, per paura che capiti qualcosa. Cosa? Non si sa: quasi sempre, ripercorrendo la giornata, si scopre che la notizia catastrofica che si annusava nell’aria, o arrivata da fonti attendibili, era totalmente priva di fondamento. Non stava per succedere un bel niente. Ma, nel frattempo, il volume di vendite in Borsa messo in moto dalla paura che arrivasse la bufera ha realmente causato un crollo dell’indice. Altra profezia che si autoavvera: avete visto che la Borsa sarebbe crollata? Lo dicevano tutti, e così è successo.

Andre Agassi a sei anni col papà, Emmanuel “Mike” Agassi(an).

Le profezie che si autoavverano abbondano, nei racconti delle carriere dei campioni sportivi. Di più: causano la maggior parte dei fraintendimenti e delle errate percezioni della realtà. Las Vegas, 1973. C’è un bambino che passa le giornate a consumare il campo da tennis sul retro di casa. La famiglia non ha soldi, arriva dall’Iran, il papà Emmanuel è violento. Ma tanto è il talento, tanta è la voglia di farcela che il piccolo ha la sua occasione: un provino da Nick Bollettieri, il coach più celebrato al mondo. Che lo vede e si inginocchia ringraziando il dio del tennis. Di lì il cammino è tracciato: il bambino diventa un fenomenale ragazzino, poi un dotatissimo adolescente e a sedici anni se la gioca già con i professionisti. Tempo di arrivare ai vent’anni ed è miliardario, osannato e celebrato in tutto il mondo. Questa è la storia di Andre Agassi, un campione venuto dal nulla. Ma è solo un’altra profezia che si auto avvera, seppur questa volta in positivo. Una profezia falsa: questa non è la vera storia di Andre, è la storia che fa comodo raccontare. Ci torneremo più avanti.

In Canada, l’hockey su ghiaccio è una religione. Se un fuoriclasse come Sidney Crosby non avesse segnato quella rete decisiva, nella finale dei Giochi Olimpici di Vancouver 2010 contro gli Stati Uniti, un’eventuale sconfitta sarebbe stata accolta come un dramma nazionale. Ebbene: uno psicologo, Roger Barnsley[1], esaminando gli elenchi dei migliori giovani atleti del suo Paese, si accorse casualmente di un dato sconcertante: il mese di nascita dei baby campioni. Tanti, troppi canadesi dediti all’hockey di alto livello erano nati tra gennaio e marzo. Come mai? Forse che nascere nei primi tre mesi dell’anno favorisca per natura le doti utili a questa disciplina? Difficile da credere. Infatti non è vero: capita semplicemente che le prime selezioni locali vengano fatte sulla base dell’età e, da piccoli, è estremamente probabile che un bambino nato a gennaio sia più alto e più forte di un coetaneo di novembre o dicembre. Chi è nato più tardi, seppur nello stesso anno solare, parte quindi con uno svantaggio spesso incolmabile. E ingiusto. Il Canada va giustamente fiero del suo sistema capillare di monitoraggio dei talenti: in effetti il Paese conta su una Lega e su una nazionale fortissime. Eppure, cartelle anagrafiche alla mano, se sei nato in Canada nella seconda metà dell’anno puoi quasi scordarti una carriera da professionista nell’hockey. In Canada ci sono tanti campioni semplicemente perché sono tantissimi i ragazzi che giocano fin da piccoli. Tutto qui. E nella quantità, anche se di fatto vengono scartati i due terzi secchi dei potenziali fuoriclasse poiché il sistema privilegia chi è nato nei primi mesi dell’anno, si trovano ugualmente i campioni. Eppure i tecnici canadesi, forti dei loro risultati, sono convinti che sia proprio l’efficacia del loro sistema a scovare i migliori talenti. Un’altra profezia che si autoavvera: siamo bravissimi a individuare campioni in erba e lo dimostra il fatto che il Canada è una delle nazioni più forti al mondo nell’hockey.

Anche nel tennis capita, per certi versi, così. Prendiamo la Francia. I nostri cugini, se si parla di tennis contemporaneo, hanno qualche campione da finale Slam che va e viene ma, invariabilmente, frotte di giocatori professionisti nei primi cento Atp e Wta. Se seguite il tennis avete ben presente che, in Italia, da decenni è vivo un dibattito sulle responsabilità della penuria di campioni: chi dice che è colpa della politica del tennis, la federazione insomma, che lavora poco e male, chi addossa le colpe sui maestri pigri e svogliati, chi ancora ritiene che tutto dipenda dalla sparizione del tennis dalla televisione pubblica. Certo, in Francia la scuola tennis è fantastica: lì i maestri, ben pagati e organizzati da una federazione centrale efficiente e danarosa, offrono capillarmente sul territorio un insegnamento di qualità che da noi manca se non in maniera disorganizzata, spontanea e privatistica[2]. Il tennis è presente anche sulla tv pubblica non pagamento. C’è poi un sistema didattico e di reclutamento realmente virtuoso: in Francia pressoché tutti gli ex giocatori non vengono abbandonati al loro destino come avviene, quasi invariabilmente, in Italia ma sono immediatamente formati professionalmente e utilizzati per crescere, a loro volta, nuovi tennisti. Tutti questi aspetti, come nell’hockey su ghiaccio in Canada, sono importantissimi e andrebbero copiati, facendo chiaramente i conti con le possibilità finanziarie che una federazione italiana può avere rispetto al gigante Fédération Française de Tennis. Ma c’è una precondizione essenziale, mai abbastanza considerata: è la base. Nel 1954 in Italia si contavano 6.000 tesserati alla federazione tennis; in Francia erano già 65.000. Nel 2010, in Italia, i tesserati non arrivano a 245.000. In Francia sono un milione e 125mila. Il tutto a fronte di una popolazione sostanzialmente equivalente (65 milioni i francesi, 60 gli italiani). I cugini, insomma, fanno bene a vantarsi del loro movimento, come i canadesi. Però è la base dei praticanti agonisti in età prescolare e scolare l’elemento essenziale del loro successo. Ci sono tanti professionisti francesi nel tennis essenzialmente perché ci sono tantissimi bambini francesi che iniziano a giocare con continuità già da piccoli. Da loro, a differenza nostra, il tennis è nelle scuole, è nei centri sportivi, è spesso presente nella vita quotidiana. In Canada c’è l’hockey su ghiaccio. In Italia, il calcio.

Un piccolo Valentino Rossi col papà, Graziano

Un ex presidente federale italiano, l’avvocato fiorentino Paolo Galgani, lo ripeteva spesso: non è colpa nostra se non abbiamo il fenomeno, il campione del tennis ce lo deve portare la cicogna. Una speranza scientificamente non vana: probabile, però, tanto quanto si dà il caso che puntando sei numeri qualsiasi si vinca al superenalotto. Certo, un Valentino Rossi è raro come un diamante Cullinan, ma l’errore è pensare che il campione sia un prodotto casuale di circostanze irripetibili, un fenomeno individuale di qualità straordinarie concentrate in un solo individuo e che, quindi, si manifesta a caso, oggi in Svezia e domani in Svizzera, in Marocco come in Bielorussia. Il campione è, invece, prodotto di circostanze sì personali ma soprattutto collettive: clima favorevole, eventi favorevoli, occasioni giuste che capitano al momento giusto. Il gift, il dono del talento, interviene sempre (e fa la differenza) ma non è la miccia che accende l’esplosione. Prendiamo Valentino: è nato nell’area italiana a più alta vocazione motociclistica in assoluto, la Romagna. Dalle sue parti è normale che un bambino provi go-kart e motociclette tanto quanto la partitella a calcio con gli amici. E il papà di Valentino Rossi non è un babbo qualunque: aveva corso nel motomondiale, negli anni Settanta. Per un Rossi da Tavullia, insomma, ci sono centinaia di ragazzi bravi sulle due e quattro ruote, tutti appartenenti alla sua area geografica. Nel numero di privilegiati, già a loro agio coi motori alle scuole elementari, è uscito il fenomeno, ne sono spuntati parecchi negli anni scorsi e ancora ne arriveranno.

Stiamo per scoprire, insomma, che nel tennis la possibilità di diventare un campione nel tennis dipende allo stesso modo, in buona parte, dall’ambiente in cui hai avuto la ventura di nascere. Se qualcuno, venuto alla luce prima di te, ha praticato il tennis ad alto livello, vuol dire che sei nato con la camicia. Se hai un genitore che ha vissuto di sport, magari anche non il tennis, parti comunque con un vantaggio quasi disonesto nei confronti di tutti gli altri. Se i tuoi genitori sono, invece, come quelli di quasi tutti, cioè lontanissimi dall’essere stati professionisti dello sport, non insegnanti di tennis, non ‘malati di tennis’, allora o vivi in un Paese come la Francia, che riesce a reclutare anche un certo numero di bambini non baciati dalla racchetta offrendo loro una chance, oppure le percentuali di successo crollano miseramente.

Questi sono i migliori venti tennisti del pianeta.

Rank     Giocatore    Note             Anni inizio
1 Nadal Lo zio è stato ex tennista professionista e suo coach 4
2 Djokovic Nessun genitore o parente prossimo tennista professionista o coach 4
3 Federer Nessun genitore o parente prossimo tennista professionista o coach 6
4 Murray La mamma era coach nazionale 3
5 Soderling Nessun genitore o parente prossimo tennista professionista o coach 5
6 Davydenko Il fratello maggiore è stato tennista professionista e suo coach 7
7 del Potro Nessun genitore o parente prossimo tennista professionista o coach 7
8 Berdych Nessun genitore o parente prossimo tennista professionista o coach 5
9 Roddick Il fratello maggiore è stato tennista professionista e il suo coach 6
10 Verdasco Nessun genitore o parente prossimo tennista professionista o coach 4
11 Tsonga Nessun genitore o parente prossimo tennista professionista o coach 7
12 Ferrer Il fratello maggiore è stato campione nazionale e coach 8
13 Cilic Nessun genitore o parente prossimo tennista professionista o coach 7
14 Youzhny Il fratello maggiore Andrei è stato un tennista professionista 6
15 Melzer Nessun genitore o parente prossimo tennista professionista o coach 9
16 Almagro Nessun genitore o parente prossimo tennista professionista o coach 8
17 Ljubicic Nessun genitore o parente prossimo tennista professionista o coach 9
18 Monfils Nessun genitore o parente prossimo tennista professionista o coach 4
19 Isner Uno dei fratelli maggiori è un istruttore professionista di tennis 9
20 Querrey Nessun genitore o parente prossimo tennista professionista 4
(Fonte: classifica Atp del 2 agosto 2010)

Avete fatto il conto? Sette dei primi venti giocatori della Terra sono nati in quella peculiare famiglia, rarissima rispetto alla statistica delle famiglie medie. Una famiglia, cioè, nella quale il tennis è stato – per un membro almeno tra quelli influenti nelle scelte del piccolo – un mestiere: un genitore o fratello o un consanguineo convivente ex professionista o coach. Sette su venti, uno ogni tre. È una percentuale strabiliante, tanto più se proviamo a inquadrare il dato: pensate a tutte le famiglie di vostra diretta conoscenza. Nonostante voi, lettori di una rivista specializzata, siate probabilmente più vicini agli ambienti del tennis rispetto all’italiano medio, in quante di queste famiglie vive un ex giocatore professionista o un coach nazionale o internazionale? Una su tre o, piuttosto, una su ottantamila? Perché è questa seconda, con buona approssimazione, la percentuale di famiglie italiane nella quale ritroviamo l’elemento-panda, il requisito rarissimo che ritroviamo nei sette su venti. Nel decennio nel quale sono nati tutti gli attuali primi venti giocatori al mondo (1979-1988) l’Italia contava su una popolazione già superiore ai cinquanta milioni, distribuiti in circa venti milioni di famiglie. Vantavano un presente o un passato nel professionismo del tennis, in quel decennio, poche centinaia di individui tra uomini e donne. Aggiungiamo i coach professionisti, molto rari peraltro in Italia. La proporzione è, appunto, di una famiglia ogni ottantamila. Questo vuol dire che una buona fetta dei campioni è nata in un microclima accidentale, una campana di vetro d’eccezione sotto la quale si respirava aria di grande tennis, con tutte le facilitazioni all’ingresso che potete ben immaginare.

Tutto sommato, direte voi, rimangono pur sempre quei tredici su venti a non contare su parenti “giusti”. È corretto. Roger Federer non è figlio di giocatori di mestiere, né suo zio lo accompagnava a scambiare quattro palle ai tempi dell’asilo. Il papà e la mamma lavoravano in una multinazionale della chimica, la Ciba-Geigy. I genitori di Fernando Verdasco erano sì conosciuti, a Madrid, ma per la paella offerta dal loro ristorante. Attenzione, però: scaviamo un po’ più in profondità nel retroterra di questi campioni che sembrano arrivati, a quanto pare, dal nulla.

Rank Giocatore Note
2 Djokovic Papà e mamma erano sciatori professionisti
3 Federer I genitori giocavano regolarmente a tennis, a livello amatoriale. Lo avviarono al tennis da bambino
7 del Potro Papà professionista nel rugby. Cresciuto nei pressi di un club della città dove un celebre maestro crebbe altri pro
10 Verdasco Il padre aveva costruito due campi da tennis dietro casa e lo avviò al tennis da bambino
11 Tsonga Papà fu ex professionista di pallamano
13 Cilic Nato nella stessa città di Ivanisevic, che lo notò e portò in un’accademia presieduta da un coach internazionale
17 Ljubicic Scappato dalla Croazia per la guerra, fu accolto a 13 anni da un club di tennis italiano
18 Monfils Il papà è stato calciatore professionista
20 Querrey Il papà fu un semiprofessionista nel baseball

Il quadro ne esce stravolto. Dei tredici “tennisti per caso”, ce ne sono cinque con genitori che praticavano un’altra disciplina sportiva ad alto livello. Come mestiere, insomma. Altri due sono nati da genitori praticanti tennis a livello amatoriale e straordinariamente motivati a trasmettere il più presto possibile

Ivan Ljubicic e Riccardo Piatti

la loro passione ai discendenti (il papà di Verdasco si era addirittura costruito in casa due campi per far giocare i figli). Siamo a quattordici su venti. Due rappresentano altrettanti casi eccezionali e quasi irripetibili, quelli che in statistica vengono normalmente scartati. Quante possibilità ci sono di ritrovare un ragazzino che fugge dalla guerra, espatria e viene cresciuto in un tennis club? A Ivan Ljubicic, volendo riassumere una storia per il vero avventurosa e anche dolorosa, è andata più o meno così. Quante volte nella vita succede che un campione di Wimbledon sia il tuo dirimpettaio, ti veda giocare e ti raccomandi al suo coach? È la storia di Marin Cilic, nato tre case più avanti rispetto a Goran, a Spalato, nella cosiddetta ‘via dei campioni’ (il terzo nato lì, con la maglietta da tennis indosso, è Mario Ancic). I veri figli di nessuno, se vogliamo, sono quattro: Soderling, Berdych, Melzer e Almagro. Figli di nessuno nel senso che, avvicinatisi al tennis pur non essendo nati nella famiglia giusta, sono emersi sicuramente grazie a circostanze favorevoli e magari inizialmente casuali, ma anche per meritocrazia: erano più bravi degli altri, sono stati avviati al tennis in età non tarda, qualcuno ha notato il loro talento e li ha aiutati a crescere.

Adesso diamo un’occhiata all’età media alla quale i primi venti tennisti al mondo hanno iniziato a giocare. La media di ingresso nel tennis è di sei anni. Parliamo di iniziare a giocare a tennis non nel senso che, con le racchettine da supermercato o con una padella, si tirano due colpi a caso contro il muro. Si parla di iniziare su un campo vero, con la rete e, soprattutto, con qualcuno che ti insegni la tecnica. È un’età naturale per scegliere il tennis, sei anni? O a quattro anni, come Sam Querrey? No che non lo è. Siamo tutti d’accordo sul fatto che ben difficilmente un bambino, per quanto emancipato, possa andare a zonzo per la città in cerca di un buon maestro perché ha scoperto di voler giocare a tennis. Bene, allora la morale è sostanzialmente questa: o ce l’hai in casa, il tennis, o te lo forniscono nella culla i genitori perché vogliono farti giocare e hanno le possibilità per farlo.

Ripetiamo il gioco con le prime venti giocatrici del mondo.

Rank Giocatrice Note Anni inizio
1 Williams Nessun genitore o parente prossimo tennista professionista o coach 5
2 Jankovic Nessun genitore o parente prossimo tennista professionista o coach 9
3 Wozniacki Nessun genitore o parente prossimo tennista professionista o coach 7
4 Williams Nessun genitore o parente prossimo tennista professionista o coach 4
5 Stosur Nessun genitore o parente prossimo tennista professionista o coach 8
6 Dementieva Nessun genitore o parente prossimo tennista professionista o coach 7
7 Clijsters Nessun genitore o parente prossimo tennista professionista o coach 6
8 Schiavone Nessun genitore o parente prossimo tennista professionista o coach 8
9 Zvonareva Nessun genitore o parente prossimo tennista professionista o coach 6
10 Radwanska Il padre, ex campione nazionale di tennis, è un coach 4
11 Li Nessun genitore o parente prossimo tennista professionista o coach 9
12 Azarenka Nessun genitore o parente prossimo tennista professionista o coach 7
13 Sharapova Nessun genitore o parente prossimo tennista professionista o coach 4
14 Henin Nessun genitore o parente prossimo tennista professionista o coach 5
15 Pennetta Nessun genitore o parente prossimo tennista professionista o coach 4
16 Wickmayer Nessun genitore o parente prossimo tennista professionista o coach 9
17 Peer Nessun genitore o parente prossimo tennista professionista o coach 6
18 Rezai Nessun genitore o parente prossimo tennista professionista o coach 8
19 Petrova Nessun genitore o parente prossimo tennista professionista o coach 6
20 Bartoli Nessun genitore o parente prossimo tennista professionista o coach 6

Prima considerazione: se si parla di donne, a livello mondiale, il tennis è ancora una prima scelta nello sport. Ecco perché i dati sono differenti rispetto agli uomini, inflazionati massimamente dal calcio. Per le ragazze, in altre parole, la scelta di giocare a tennis è un’opzione praticabile non in subordine ad altri sport e quindi è più probabile che l’avvicinamento al tennis sia, in qualche modo, casuale. La concorrenza di pallavolo, danza e atletica non vale quella del calcio per gli uomini. E comunque, ormai, siete sufficientemente svezzati per non cadere nel tranello: a prima vista, infatti, diciannove su venti stelle della Wta arrivano dal nulla. Potrebbero essere le vostre sorelle o le vostre cugine, insomma. Ma solo a prima vista.

3 Wozniacki Il papà è stato calciatore professionista. La mamma, una pallavolista professionista
6 Dementieva Il genitori erano tennisti amatoriali. Le fecero fare un provino in due circoli a sette anni
7 Clijsters Il papà era calciatore professionista. La mamma ginnasta professionista.
9 Zvonareva La mamma andò alle Olimpiadi (hockey su erba), il padre fu nazionale di bandy (una sorta di hockey ghiaccio)
12 Azarenka La mamma era impiegata in un circolo di tennis
13 Sharapova Il padre diventò amico del papà di Kafelnikov, che le regalò una racchetta a quattro anni
15 Pennetta Il padre, agonista regionale, è presidente di un tennis club
17 Peer Ha un fratello e una sorella maggiore che si allenano, pretende di giocare con loro
19 Petrova Il padre era campione di lancio del martello. La mamma gareggiò alle Olimpiadi sui 400 metri
20 Bartoli Tutta la sua famiglia giocava a tennis. Lei era la più giovane e iniziò da bambina
(Fonte: classifica Wta del 2 agosto 2010)

Il caso Williams, per come è stato raccontato al grande pubblico, ricalca la classica profezia che si autoavvera: famiglia disagiata, il ghetto di Compton, la voglia di riscatto delle due piccole, il tennis come mezzo per emergere, il successo che arride alla loro volontà di ferro. Questa è la storia da leggere sotto l’ombrellone, come quella del baby Agassi. In realtà nessuno ricorda quanto abbia pesato la feroce determinazione di papà Williams. Un uomo rozzo, non certo colto, in gravi ristrettezze economiche che, un giorno, vide in tv un match di Virginia Ruzici. Lo speaker televisivo annunciò che la rumena aveva appena incassato 40.000 dollari in quella settimana – correva l’anno 1978 – e il padre decise: il tennis sarebbe stato la via di fuga dal ghetto per sé e le sue figlie[3]. Richard impose il tennis alla famiglia come priorità assoluta. Serena e Venus consumavano campi da tennis. Vivevano di tennis già da piccole, tanto da non essere neanche del tutto sicure del periodo nel quale iniziarono a giocare.

Viktoria Azarenka

Conoscete l’aneddoto di Ascenzietto? Adriano Panatta era figlio di Ascenzio, custode del Tennis Club Parioli di Roma, quello frequentato da Nicola Pietrangeli. Dopo la prima sfida tra i due, negli spogliatoi, Panatta va da Pietrangeli e gli porta i saluti del padre. «Ma allora tu sei Ascenzietto» , dice il vecchio al giovane. Panatta, non fosse stato Ascenzietto, non sarebbe diventato Panatta[4]. Viktoria Azarenka è una piccola Ascenzietta: sua mamma lavorava in un circolo di tennis. Se la portava dietro e le mise in mano una racchetta per tenerla occupata. Fosse stata la segretaria di un onorevole di Minsk, oggi la Bielorussia avrebbe una campionessa in meno. La sua amica Vera Zvonareva, finalista quest’anno a Wimbledon e agli Us Open, a sei anni conosceva già a memoria il campo da tennis: a portarla al circolo era la mamma, appassionatissima di tennis. Vogliamo aggiungere qualche riga alla biografia di altre signore nessuno? Elena Dementieva racconta, oggi, che fu rifiutata da due club, la Dinamo e il CSKA. A sette anni. Pensateci: a sette anni, i genitori della Dementieva le avevano già fatto fare due provini per entrare nelle squadre agonistiche più rinomate del tennis di Mosca[5]. Vi pare una circostanza usuale? Kim Clijsters, figlia di un calciatore professionista del Malines, a sei anni aveva già provato più sport: scelse il tennis. In prima elementare si allenava già tutti i giorni al Tennisdel di Genk; a undici fu scelta da un coach nazionale che la allenò individualmente perché convinto potesse diventare una campionessa. Francesca Schiavone? Chiedete a Daniela Porzio, maestra in un circolo di via Cilea a Milano. Certo, con il papà che lavora nell’azienda trasporti pubblici, la mamma infermiera, la parabola di Francesca sarebbe perfetta per raccontare la favola della ‘campionessa per caso’. Eppure, guarda un po’: vicino a casa, in un quartiere disagiato della periferia milanese, la Schiavone chi va a trovare? L’ex numero uno italiana che insegnava tennis. E che si accorse di avere a che fare con un pezzo raro. Avesse avuto a che fare con un palleggiatore svogliato e improvvisato, o con una rete da pallavolo, oggi avremmo una campionessa da Slam in meno. A sei anni la cinese Na Li giocava già in una squadra di badminton. La sua insegnante andò a casa dei genitori per consigliare la carriera tennistica, trovandola molto dotata (meno per il badminton: usava troppo la spalla e poco il polso).

Vogliamo, poi, parlare di Maria Sharapova e della sua profezia che si autoavvera? Il talento, la voglia di sfondare, i freddi siberiani, la tenacia e il successo? Ebbene. Senza il disastro nucleare di Chernobyl del 1986 la sua famiglia non si sarebbe mai trasferita. E dove finiscono, gli Sharapov, se non a Sochi? Il padre di Masha, Yuri, avesse mai scelto una qualunque altra città non avrebbe mai conosciuto Aleksandr Kafelnikov, papà di Yevgeny, rigidissimo professore di educazione fisica e coltivatore professionista di talenti (un’altra top player russa, Elena Vesnina, ha condiviso un coach in tenera età a Sochi con la Sharapova: è Jurij Vasiljevich. La mamma di Elena la fece iniziare a giocare col maestro a sette anni). Maria, senza quel qualcosa che andò tragicamente storto in una fusione nucleare, non avrebbe mai iniziato a giocare a quattro anni. Il padre la allenava regolarmente al parco quando ancora frequentava l’asilo. A sette anni la vide Martina Navratilova, che raccomandò al padre di tentare l’avventura negli Stati Uniti alla corte di Bollettieri.

Justine Henin racconta di sé: «Ero immersa nel mondo dello sport fin dall’infanzia». A cinque anni prendeva già lezioni al Ciney’s Tennis Club. La mamma, tennis-fanatica, la portava ogni anno a Parigi per seguire il Roland Garros. Yanina Wickmayer: presto orfana di mamma – come purtroppo capitò a Justine – il papà decise di vendere le quote della sua azienda per accontentarla in ogni suo desiderio. A lei piacevano il taekwondo e il tennis: scelse quest’ultimo. I due partirono per gli Stati Uniti in cerca di maestri giusti e di fortuna, e tornarono che Yanina era una tennista fatta e finita.

Quello che si può ancora registrare, approfondendo le storie delle campionesse del tennis, è che l’ambiente del tennis femminile è meno sano rispetto all’omologo maschile. I padri padroni, i Richard Williams, gli Yuri Sharapov, i Walter Bartoli, gli Arsalan Rezai (e così, ovviamente in scala di gravità ben diversa, i Dokic, i Lucic eccetera), i genitori insomma che ‘usano’ i figli come mezzo di riscatto e di conquista di obiettivi personalmente mancati abbondano. E, anche senza preparazione tecnica, se hanno in mano del materiale di qualità riescono a crescere delle campionesse. Circostanza che, peraltro, suggerisce che sia ancora oggi più facile emergere a livello femminile rispetto al tennis maschile.

Pensate ancora che il campione diventi tale per pura individualità, grazie al talento, alla voglia di farcela e all’impegno nel superare tutti gli ostacoli? Allora torniamo a parlare del nostro born to be a champion per antonomasia, il campione già tale nella culla, Andre Agassi. La versione più gettonata della sua vita vuole che Andre sia arrivato letteralmente dal niente: un padre immigrato negli Stati Uniti, scorbutico e squattrinato, una brutta vita nei sobborghi di Las Vegas, l’incontro col tennis come occasione di fuga dal degrado, la scoperta del dono del talento da parte del guru Bollettieri e l’ascesa fulminante fino alla consacrazione. Vi accontentate della biografia ritagliata addosso al personaggio o volete sapere cosa veramente accadde ad Andre Agassi[6]? Innanzitutto quello scostante e violento signor Emmanuel Agassian non era un immigrato iraniano qualunque: era un ex pugile professionista, aveva partecipato a due Olimpiadi. Padre sportivo professionista in casa: primo segno. Secondo segno: Mike costruì dietro casa un campo da tennis e piazzò una macchina lanciapalle modificata (che Andre chiamava “il mostro”) per sparare addosso al figlio migliaia di palline al giorno. Cosa aveva a che fare la disciplina del tennis con gli Agassi? Niente. Semplicemente, quando ancora viveva a Teheran, il giovane Emmanuel faceva il raccattapalle per i soldati di una base della Nato vicina a casa sua. Una volta emigrato, poi, trovò lavoro come croupier al casinò e, una sera, fu fulminato esattamente come papà Williams: assistette al torneo professionistico di tennis organizzato proprio al Caesar’s Palace dall’attore Alan King. A un certo punto arrivò una carriola piena zeppa di dollari. Agassi senior rimase sconvolto da quella visione e decise che il tennis, quel tennis che aveva visto giocare nella base Nato, sarebbe stata la missione per i suoi figli. Ecco, qui c’è anche l’ingrediente del padre padrone che desidera per sé i soldi e individua nel figlio il suo strumento di arricchimento. A sei anni Andre aveva colpito più palline che la maggior parte di voi in tutta la vita. Come poteva, diversamente, essere così forte da vincere partite con denaro in palio contro tennisti di club adulti? Semplicemente, talento a parte, viveva colpendo palline da tennis. Terzo segno: il fratello maggiore. Prima di provarci con Andre, Mike aveva tentato con Phil. Che, racconta Andre, aveva un dono per il tennis ma non sufficiente cattiveria e, così, da promessa che era, divenne presto allenatore e accompagnatore del Kid nei primi tornei. Tutto, nella vita di Andre Agassi, ha congiurato perché diventasse un professionista. Era davvero complicato non arrivare quantomeno a prendere un punto Atp. Il suo talento, poi, gli ha permesso di essere Agassi e non un John Doe qualunque, numero 90 al mondo per qualche settimana.

Torniamo alla pratica. Cos’altro hanno in comune Agassi, la totalità delle vecchie glorie e gli attuali migliori quaranta tennisti, uomini e donne, della Terra? La quantità. Approdando ai primi tornei giovanili tutti i fuoriclasse contano già su un monte ore di gioco non paragonabile rispetto a quello di qualunque altro bambino che giochi a calcio e, magari, nei ritagli di tempo a tennis o che si dedichi principalmente al nascondino in cortile con gli amici. L’ingrediente che non può mancare, che si diventi Agassi o anche solo Jeff Tarango, è insomma la preparazione[7]. Ecco perché, soprattutto a livello maschile, sarebbe importante nascere nella famiglia giusta, perché non c’è tempo da perdere per diventare campioni. Ed è molto più probabile avere familiarità con rete, righe e tornei nelle famiglie dei sette su venti che in tutte le altre.

Dove il sistema di reclutamento (sistema che, intendiamoci, non solo è giusto esista ma è anzi auspicabile) dovrebbe provare a intervenire è proprio qui: nel correggere la non-meritocrazia dei sette su venti, nel tentare di allargare la base dei praticanti, nell’incentivare le famiglie a conoscere il tennis, il tutto nella speranza che scatti la reazione chimica dalla quale nasce il campione. Il cuore della questione, insomma, sta nelle dimensioni della base di partenza.

Joachim Noah

La Francia, dicevamo. La Francia ha tanti professionisti del tennis perché non spera soltanto nella genìa dei Leconte, dei Pioline e dei Noah (un figlio di Yannick, Joachim, è casualmente una stella della Nba). Conta su 5500 centri dedicati al minitennis per i bambini dai cinque ai sei anni. Su 1600 centri Club Junior, che si occupano dei giocatori dai 5 ai 18 anni (l’initiation da 7 anni, il perfectionnement dagli 8 ai 12, il centre d’entraînement dagli 8 anni per i migliori di ogni categoria) e su selezioni costanti dei talenti a partire dagli otto anni in poi, riuniti in 36 Groupes Avenir regionali. Sono 20, dicasi venti, i poli di insegnamento e formazione per l’eccellenza giovanile fino al centro di alto rendimento, che ha sede al Roland Garros. La collaborazione con la scuola pubblica francese è piena, dagli anni dell’insegnamento dell’obbligo all’Università. Fortuna loro, hanno un torneo dello Slam che ogni anno fabbrica milioni di euro di utili e sanno investirli nella formazione. Dove invece mancano, per evidenti ragioni di dimensione, la capillarità e un sistema di reclutamento collaudato come quello francese si applicano le tecniche delle colture latifondiste. La federazione degli Stati Uniti è il maggior latifondo tennistico. Nel 1980, sei dei primi dieci giocatori al mondo erano americani: McEnroe, Connors, Gene Mayer,  Solomon, Gerulaitis, Teltscher. Trent’anni dopo, agosto 2010, per la prima volta dall’introduzione del ranking – il 1973 – manca un top ten nato negli Stati Uniti. Il sistema, insomma, è andato in crisi. Si accorse della crisi imminente la Usta, la federazione tennis statunitense, che infatti lanciò nel 2000 insieme alla Tia (acronimo di Tennis Industry Association, un gigante che raccoglie tutte le aziende produttrici di merce legata al tennis) una campagna intitolata Grow the Game (fai crescere il gioco). Obiettivo: rilanciare una disciplina in declino e, grazie alla semina, far nascere nuovi campioni. In poco meno di un decennio la pratica del tennis è cresciuta del 43% e oggi gli States contano su 27 milioni di tennisti a tutti i livelli. Quasi metà della popolazione italiana. In realtà l’obiettivo non era tanto – o solo – quello di far palleggiare tutta la famiglia, dal bimbo al nonno, ma fare in modo che in quelle famiglie si creasse il clima favorevole alla nascita del campione. Non a caso Grow the Game contiene una serie di iniziative (il Tennis Welcome Center, il Quickstart Tennis) concepite per invogliare alla pratica i bambini sotto i dieci anni. Come? Abbattendo le barriere all’ingresso, troppo alte per i più. In favore dei genitori vengono riconosciuti forti sconti su racchette, corde e palline per junior e da principianti (grazie a convenzioni con grandi marchi mondiali: Babolat, Prince, Dunlop, Head-Penn, Gamma e Wilson); si applicano prezzi di favore sulle lezioni private; si offrono indicazioni sui circoli da frequentare, legati da partnership con l’iniziativa[8]. La Usta, insomma, non aspetta la cicogna o un altro signor Williams: ha preparato, per quanto è possibile, il terreno e lo ha fertilizzato. Di qui a un altro paio di decenni si vedrà, scorrendo l’albo d’oro dei tornei pro, se qualche seme avrà attecchito. Per ora sconta la crisi aggrappandosi a Roddick, Fish, Querrey. E augurando vita eterna a Serena e Venus.

L’Italia, purtroppo, non è all’avanguardia. Manca l’ingrediente della quantità di potenziali agonisti e, per ciò solo, viene meno uno dei requisiti a monte per la nascita di bambini future stelle, fatta eccezione per la possibilità data alle famiglie giuste (in questo senso, forse, potrebbe essere saggio dare un’occhiata alla progenie di tutti gli ex giocatori recenti). Non è che non si giochi, è che sono troppi i tennisti della domenica rispetto ai giovani che tentano di sfondare. Lo sport, il tennis in particolare, è poi slegato dalla formazione. L’Italia, peraltro, è un Paese tennisticamente conflittuale: si litiga ancora sulla legittimazione a esistere, volendo la federazione imporre la sua legge su tutti gli insegnanti mentre sigle indipendenti – nazionali e non – si oppongono a tentativi di monopolio non riconosciuti legalmente. E così abbiamo le targhe, i corsi e i centri estivi Fit, le qualifiche della Uisp (Unione Italiana Sport per Tutti), la formazione Ptr (Professional Tennis Registry) e tante altre organizzazioni minori.

Di più: l’insegnamento del tennis, pur essendo l’Italia un Paese piccolo con un numero di agonisti ristretto, non è gestito capillarmente perché mancano le risorse – e anche sufficienti professionalità – per copiare una ‘rete’ di successo come quella francese[9]. Gli ex giocatori sono in massima parte dispersi, lontani dal loro sport: vi capita forse di sentir parlare o di avvistare nell’ambiente del tennis Omar Camporese, Cristiano Caratti, Diego Nargiso, Paolo Canè, Andrea Gaudenzi? Eppure hanno fatto la storia del tennis italiano negli ultimi vent’anni. Un’eccezione è Renzo Furlan, 40 anni, ex numero 19 al mondo. È il direttore del centro tecnico nazionale della Fit di Tirrenia. «Il reclutamento in Italia – dice – da qualche tempo a questa parte sta funzionando piuttosto bene, secondo me. I numeri sono buoni. Dove abbiamo problemi è in un’altra fase, quella selezione del talento». In sostanza, sostiene Furlan, bisognerebbe individuare i potenziali talenti su una base larga prima di avviarli al tennis, non ‘raccogliere’ genericamente nuove leve e, su quelle, operare la scrematura dei più validi, perché si rischia di perdere in partenza gli elementi migliori. «In Australia vengono fatte selezioni vere e proprie nelle scuole. I bambini vengono esaminati con semplici test di motricità per selezionare chi ha più facilità rispetto ad altri». Il fatto è che da noi non succede: la scuola italiana fa muro contro muro con il tennis e le istituzioni – nella specie federazione e ministero dell’Istruzione – non collaborano tra loro.

Barbara Rossi, anche lei ex professionista e coach di livello assoluto – Schiavone e Pennetta, le due migliori giocatrici italiane di sempre, sono passate per le sue mani – ha sperimentato a lungo queste difficoltà. «Il primo reclutamento è lasciato totalmente nelle mani dell’iniziativa privata. E la scuola italiana è uno dei peggiori nemici del tennis. La scuola francese prende l’atletica sul serio, da noi l’ora di ginnastica è un’ora persa. Mi sono ritrovata personalmente, per anni, a tentare di entrare nelle scuole elementari con delle brochure in mano, per invitare i bambini a giocare a tennis, per fare loro un provino e cercare qualche talento. Presidi e direttori quasi sempre ti impediscono fisicamente di varcare la soglia dell’istituto e di proporre uno sport che non è incluso nel programma scolastico a meno che non siano, per puro, caso degli appassionati di tennis. Noi vorremmo reclutare nuovi giocatori dalle scuole: è che non ce lo fanno fare. Puoi solo sperare che, di quei pochi – rispetto al calcio – che vengono a provare il tennis ce ne sia qualcuno dotato di qualche qualità».

Non è questa la sede per discutere le ragioni di tanta ostilità: il tennis, però, ha degli evidenti handicap. Per giocare servono campi, non basta il cortile di casa. Servono soldi per racchette, scarpe, palline, corde. Si devono pagare il maestro, la tessera del circolo, il riscaldamento, le luci artificiali, le trasferte per i tornei. Non è uno sport accessibile a tutti. «Il discorso – aggiunge Furlan – è anche un altro. Il funzionamento delle scuole Sat[10] è cambiato. Prima se ne occupava direttamente il club che pagava il maestro, adesso la maggior parte delle scuole è stata data in gestione ai maestri. Il maestro deve incassare: tanto più guadagna quanti più allievi raccoglie. Così facendo, però, il discorso qualitativo viene inevitabilmente a calare».

Insomma, in Italia i migliori talenti se li prende il calcio. Gli altri, in definitiva, se si avvicinano al tennis lo fanno per caso, o sono i figli dell’uno su ottantamila. Quali correzioni tenta di apportare, il sistema italiano, a questa difficoltà di accesso e di reclutamento? «In questa direzione – risponde Furlan – interviene il progetto Pia[11], nel senso che tutti i circoli affiliati al Pia devono rispettare dei parametri di qualità per indirizzare l’attività. Il centro di Tirrenia lavora su una serie di ragazzi dai 14 ai 18 anni, mentre per i più giovani abbiamo dei maestri che girano l’Italia a controllare la qualità del lavoro. Ma non è che tutte le scuole italiane siano affiliate ai Pia». Anzi: è quasi vero il contrario: i club che ottengono la certificazione federale Pia, e che per questo ricevono dei contributi federali, negli anni 2008-2009 sono stati meno di 350 sui più di 3000 presenti sul territorio. Numeri bassi, troppo bassi. Peraltro, sull’avvio al tennis, sul “diamo loro una racchetta in mano prima che sia troppo tardi”, il parere di Furlan non sposa la tesi del sette su venti: «Conosco tantissimi ragazzi arrivati al tennis in modi diversi, compreso il mio caso. Il figlio del giocatore o del maestro è ovvio che si possa avvicinare più facilmente al tennis, io comunque ho due figli di nove e quattro anni che non giocano a tennis[12]». Sta di fatto che la base di bambini che inizia a giocare a tennis in tempo per poter diventare un professionista è tale da non invogliare ad alcun ottimismo razionale, da parte di chi si occupa del tennis in Italia. E soprattutto mancano gli interventi a monte: da noi, ancora troppo spesso, si inizia a giocare a tennis per avventura o per privilegio. I due migliori under 14 italiani, leggendo la classifica europea Eta, sono Gianluigi Quinzi e Filippo Baldi. Il primo è nipote e figlio di due presidenti del Tennis Club Porto San Giorgio, sede di un rinomato torneo internazionale giovanile. Il secondo fu portato dalla appassionatissima mamma a imparare il tennis al Tennis Club Vigevano, dopo un inizio con il calcio. Non sono piccoli campioni per caso, sono solo i figli della cicogna più rara.

La Spagna è priva di un sistema paragonabile a quello francese. Anzi, manca del tutto. I possessori di licencia, la tessera agonistica, sono appena 108.000 su una popolazione di quasi 47 milioni. Non molti, se ricordate i numeri della Francia (dieci volte superiori) e dell’Italia (più del doppio). Eppure ha ugualmente monopolizzato il tennis mondiale nelle ultime tre decadi, con risultati di eccellenza decisamente superiori a quelli di tutti gli altri Paesi europei, Francia compresa. Come è possibile? La patria di Rafa Nadal ha parzialmente annullato la distorsione dei sette su venti grazie, prima di tutto, a un allargamento spontaneo della base di praticanti, che cinquant’anni fa praticamente nulla. Il merito non è stato, infatti, della Real Federación Española de Tenis quanto dei frequentanti dei circoli, che si associano nelle 19 sottozone regionali e raccolgono gran parte delle strutture private, sorte in maniera pioneristica a partire dagli anni Sessanta insieme ai primi successi internazionali (le vittorie Slam di Manolo Santana, due finali in Coppa Davis nel 1965 e 1967). Si innescò, ai tempi, un improvviso circolo virtuoso di nuovi appassionati, nuovi club per accontentare la domanda di tennis e frotte di nuovi praticanti. I cui figli e nipoti sono – anche – diventati campioni perché, in un Paese essenzialmente povero, nel quale il tennis era considerato troppo di élite per rappresentare un’alternativa a discipline più accessibili, improvvisamente l’avvio al tennis diventò semplice e fu visto soprattutto come una possibilità per emergere, anche socialmente. Pochi tennisti da doppio domenicale con gli amici e tanti giovani al lavoro per fare del tennis un mestiere. Centinaia di strutture sparse per il Paese, prezzi abbordabili e ‘febbre di tennis’ sono state la base per innescare un fenomeno fino ad allora sconosciuto: i team privati. Tra i primi ad applicare questa filosofia di lavoro, ormai vincente in quasi tutto il mondo, fu Pato Alvarez. Un colombiano di Medellin, professionista negli anni Cinquanta e Sessanta, che nel 1972 si stabilì a Barcellona, dove ama ricordare che ci fossero solo campi aridi e cespugli rinsecchiti dal caldo. Alvarez ha cresciuto stelle come l’ex top ten Emilio Sanchez Vicario, da anni titolare dell’omonima Accademia, e lanciato nel circuito nuovi astri come Andy Murray (in Scozia l’uno percento della popolazione gioca a tennis e mamma Murray, il coach di tennis Judy, capì presto che rimanendo a Dunblane il suo figliolo sarebbe diventato un altro degli ormai leggendari britannici scarsi). In Spagna, a fianco di Alvarez, si sono costituiti veri e propri clan, alle volte in competizione: ex giocatori di vario livello e maestri che hanno intrapreso la via del tennis di professione in autonomia, alla spasmodica ricerca del campione da lanciare nel circuito. Gente come il signor Luis Bruguera, negli anni Ottanta e Novanta, ha contribuito in maniera determinante a cementare il metodo spagnolo: struttura leggerissima, fortissima motivazione, applicazione e metodo. Giocare alla spagnola era diventato, fino a qualche anno fa, sinonimo della costruzione di un giocatore fisicamente preparatissimo, concepito per essere competitivo sulla terra battuta, magari non spettacolare ma tutto sostanza. A metà anni Novanta, in piena era spagnola nel circuito Atp, soggiornavano nei primi cento una ventina di iberici: Bruguera figlio, Sergi; poi Corretja, Berasategui, Albert e Carlos Costa, Clavet, Arrese, Emilio e Javier Sanchez, Carbonell, Burillo, un giovane Moya, Viloca, Mantilla, Lopez-Moron, Blanco, Portas, Vicente, Calatrava, Roig, Alvarez, Martin, Calatrava, Diaz. I team privati stringevano accordi con i circoli, si appoggiavano a strutture spesso non proprietarie e si dedicavano esclusivamente alla formazione di atleti che puntavano al professionismo, con i giocatori ‘arrivati’ che aiutavano, a loro volta, i giovani a salire sul carro seguendo una strada già battuta: schemi di gioco, piano delle trasferte per futures e tornei satelliti, schedule di allenamento. Senza scomodare i fenomeni come Rafa Nadal, figlio di famiglia sportivissima, i Sergi Bruguera di ieri, i Feliciano Lopez, i Tommy Robredo di oggi sono figli e nipoti di quel tennis boom dal sapore fortemente agonistico. Ed è inutile ricordare che, incidentalmente, tutti e tre hanno in comune un tratto: l’essere, a loro volta, figli di coach.

È proprio per cercare di assimilare il metodo spagnolo – ormai evoluto rispetto a quello dei decenni scorsi e lontano dalla concentrazione esclusiva verso la terra battuta – che una buona parte dei migliori giocatori italiani si è rivolta proprio alla Spagna: Flavia Pennetta lavora da anni a Barcellona con un ex professionista (un tempo sotto contratto all’Accademia Sanchez-Casal), Gabriel Urpi. Anche Francesca Schiavone, nel 2009, era per qualche mese ‘emigrata’, in un periodo di crisi, unendosi al clan Pennetta. Sara Errani vive a Valencia, dove lavora con Pablo Lozano (sì, un ex professionista) all’Accademia Val. Lì si allenano David Ferrer, Kirilenko e il fidanzato Andreev, Medina Garrigues, c’è passato Marat Safin. Anche Fabio Fognini ha scelto, da anni, la via della Spagna e, a sentire i giocatori, le motivazioni sono simili: la mancanza di un programma mirato ai professionisti in patria, la piena collaborazione tra i team spagnoli, la compresenza di atleti di alto livello, la competitività dell’ambiente. In Italia il reclutamento manca, il denaro francese non ci sarà mai, l’humus spagnolo non si ravvisa, la collaborazione tra i pochi tecnici in grado di formare atleti di alto livello è rarissima, spesso sostituita da una non sana rivalità.

Spesso si sente una battuta: «Certo che se Federer fosse nato a Latina…» Ora, con quello che sappiamo, potremmo rispondere che, se Federer fosse nato a Latina, semplicemente non sarebbe diventato Federer.

 

 

  1. Questo e altri studi sono presentati e raccontati da Malcolm Gladwell in Fuoriclasse, Storia naturale del successo, Mondadori.
  2. È sufficiente guardare ai coach dei migliori tennisti italiani. Massimo Sartori, maestro vicentino, vide in un piccolo circolo di Caldaro un bambino dotato. Si chiamava Andreas Seppi: lo prese e lo portò al professionismo. Umberto Rianna scelse un giocatore scartato dalla Federazione, Potito Starace, e lo fece diventare un giocatore. Fabrizio Fanucci fece lo stesso curando dall’adolescenza Filippo Volandri. Il centro tennis nazionale italiano, a Tirrenia (PI), ha le strutture di un circolo francese di medio-piccole dimensioni. Renzo Furlan, direttore tecnico del centro: «Tirrenia conta su un college con nove ragazzi fissi, poi due o tre per ogni annata dal 1992 al 1996, che ‘ruotano’ settimanalmente, poi Francesca Schiavone, che si allena al centro dal novembre 2009. Una quindicina di atleti in tutto. Bisognerebbe, certo, lavorare sul numero alto. La struttura federale sta migliorando ma non siamo Bollettieri, che ha 40 campi e decine di maestri. Noi abbiamo tre maestri, otto campi – quattro in terra e quattro in veloce – in inverno giochiamo solo al coperto, ma con 14-16 ragazzi li riempiamo completamente. Fosse per me ci sarebbero più centri sul territorio per seguire almeno 30, 40 ragazzi. Purtroppo manca il budget, noi non siamo la Spagna né la Francia né la Gran Bretagna».
  3. Trovate questa storia raccontata in On the line, il libro scritto da Serena Williams con Daniel Paisner, edito da Grand Central Publishing.
  4. L’episodio è riportato in C’era una volta il tennis, di Lea Pericoli, edizioni Rizzoli. Il caso di Panatta, tennista per caso, solletica un’altra considerazione che riguarda il fratello minore, Claudio Panatta. Di Claudio, classe 1960, di dieci anni più giovane rispetto ad Adriano, si diceva ai tempi d’oro che avesse una sola e grande sfortuna, quella di trovarsi un campione in casa, un personaggio tanto ingombrante che senza volerlo, con i suoi successi, gli tarpava le ali e lo lasciava nell’ombra. Altra profezia che si autoavvera. Claudio Panatta non avvicinò mai i livelli di Adriano, comunque vinse un torneo Atp a Bari, giocò in Davis ed entrò nei primi 50 giocatori del mondo nel 1984. Quello che non si dice mai, invece, che è forse è vero il contrario. Cioè che grazie ad Adriano, Claudio Panatta diventò un professionista. Come il McEnroe minore, Patrick, o lo Schumacher più lento, Ralf, Claudio Panatta crebbe nella famiglia dei sette su venti, quella che offre la straordinaria possibilità di diventare professionisti perché si ha un professionista di quella disciplina in casa. Se Panattino non avesse avuto un campione da Slam come fratello, pur avendo un buon talento forse non sarebbe arrivato a vivere di tennis: chissà quanti Claudio Panatta, con le stesse doti, non ce l’hanno fatta o, magari, neanche sanno di aver avuto un dono per il tennis mai sfruttato. Semplicemente perché, a casa loro, diventare tennista di professione era un’opzione praticabile tanto quanto la carriera di astronauta: non veniva contemplata.
  5. Altre top player russe, Svetlana Kuznetsova e Maria Kirilenko, sono rispettivamente figlie di una pluricampionessa del mondo di ciclismo e di un coach di tennis professionista della Dinamo Mosca; le tre sorelle Bondarenko, Alona, Kateryna e Barbara sono figlie di due insegnanti di tennis di Kiev.
  6. Rifacciamoci a Open, la sua biografia scritta col premio Pulitzer J. R. Moehringer per l’editore Knopf.
  7. Gladwell (op. cit.) la chiama la regola delle diecimila ore. I Beatles, Mozart, Bill Gates sono tutti fuoriclasse che però, per diventare tali, hanno approfittato di occasioni (più o meno casuali) quasi irripetibili, che hanno concesso loro un vantaggio incolmabile con altri potenziali geni dello sport, della musica, dell’informatica e quant’altro. Per esempio i Beatles, casualmente scritturati per suonare ad Amburgo quando ancora erano dilettanti, ebbero la straordinaria occasione di esibirsi in maratone di otto ore al giorno per sette giorni su sette sul palco. A detta di molti la loro tecnica e il loro affiatamento si affinarono proprio durante quelle infinite sessioni: diversamente è probabile che il loro talento sarebbe andato disperso. Gladwell sostiene che, mediamente, si possa calcolare in diecimila l’ammontare delle ore necessarie per diventare davvero bravi in una disciplina, che sia lo sport, la musica, il cinema o una branca della scienza.
  8. Per rendere il tutto appetibile non solo per i pargoli, Grow the Game offre possibilità anche al resto della famiglia. Per gli adulti c’è il Cardio Tennis, per giocare tenendo d’occhio la forma fisica e in particolare la salute del cuore. Si possono acquistare palline da allenamento per corrispondenza a meno di mezzo dollaro l’una; si trovano abbigliamento sportivo in stock e  promozioni sull’abbonamento alle riviste Tennis Life Magazine e Ace. Anche le aziende hanno un’opportunità, il 50/50 Co Op: per le società che investono in progetti di rilancio del tennis nelle loro città, Usta e Tia riconoscono un contributo a fondo perduto pari al 50% delle spese sostenute.
  9. Uno degli aspetti paradossali del sistema sportivo italiano è che ancora poggi economicamente sul Coni, il Comitato Olimpico Nazionale, nato nel 1914 e ‘mamma’ di 45 federazioni sportive, tra cui la Federtennis, cui elargisce denaro pubblico. Capita così che, almeno ufficialmente, proprio per la sua provenienza parte del denaro che passa dal Coni alla Fit venga spesa per la preparazione olimpica (tanto che, a tutt’oggi, il centro tennis federale è denominato Centro di Preparazione Olimpica di Tirrenia). Ciò quando è invece chiaro a tutti che le Olimpiadi, nella formazione e preparazione di un professionista del tennis, rivestono un’importanza del tutto secondaria se non trascurabile.
  10. Scuola Addestramento Tennis. È il passo successivo alla pratica del minitennis.
  11. Piani Integrati d’Area. (fonte: www.federtennis.it/PDF/Pia2008-09.pdf)
  12. Il figlio maggiore, però, gioca a calcio. Varrà la pena consultare gli annuari del calcio tra una decina di anni.

2 pensieri su “Come si… nasce fuoriclasse

  1. OMAR GIANNOTTI

    Complimenti per l articolo, la mole di informazioni e l analisi del problema.
    Data l impossibilità di copiare chi sta meglio di noi o meglio ,è diverso da noi, la soluzione a breve o medio termine, mi pare non ci sia.
    Certo un federer / nadal / djokovic , nato dove vuole lei in italia, con il papà coach sarebbe la classica botta di culo italica che farebbe svoltare il movimento tennisitico
    Conoscendo l indole italica mi sembra l unica e definita speranza .

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