1976-2016: quarant’anni di Panatta a Parigi

di | 24 Maggio 2016

[pubblicato sull’Unità del 9 giugno 2016]

Più che un anniversario, sembra l’Armageddon: cielo nero, dodici gradi all’ora di pranzo, la piena secolare della Senna, ombrelli girati all’insù che volano per strada e la gente avvolta nei giacconi, come a Natale. Adriano Panatta non deve patire il freddo: veste come in un giugno qualunque, a 66 anni ha lo stesso sguardo spiovente dei 26 ma, se provi ad attaccare con l’epica del 1976, ti taglia le gambe con una smorzata: «Io la detesto, l’autocelebrazione. Mi fa proprio orrore. Noi eravamo, e questi di oggi sono lo stesso, ragazzi in mutande che pigliavano a racchettate una palla. Che poi in quegli anni capitavano cose un poco più serie, soprattutto in Italia: le Brigate rosse, le bombe in piazza… E magari noi eravamo a Tucson a giocare e lo venivamo a sapere una settimana dopo: vivevamo un po’ distaccati dalla realtà».

D’accordo l’understatement, ma eri un mito. Hai vinto l’ultimo Slam tra gli uomini italiani, Roma, la Davis; oggi sei qui a premiare il vincitore, la tua vita è stata a lungo il tennis.
«Sì, ma non ne farei una questione di Stato: il divismo non mi appartiene, e me la prendo a morte pure con le rockstar che si atteggiano a superuomini. È una forma di volgarità che mi fa prudere le mani: potessi, li prenderei tutti a schiaffi».

Eppure il tennis tenne banco addirittura in Parlamento, quell’anno: il partito comunista non voleva farvi giocare in Cile contro il boia Pinochet, la questione finì in agenda del governo Andreotti alla lettera T, insieme al terrorismo e ai terremoti.
«Sì, ma in fondo ci usarono come scusa per litigare tra loro. Di quella finale di Coppa Davis non gliene fregava assolutamente nulla, alla politica: infatti finì che la Rai non mandò neppure la televisione ma solo la radio. Niente tivù in una finale di Coppa: era davvero un altro mondo».

Anche l’intoccabile Djokovic e Nadal, che qui ha vinto nove volte, sono di un altro mondo. Come li affronterebbe, Panatta?
«E provassimo a rovesciare la domanda? Se prendessimo questi qui e li facessimo giocare con noi, con le racchettine di legno? Era un tennis diverso, su. Oggi giocano con le armi spaziali. Ma non sono un nostalgico: a me il gioco di oggi sta bene, è divertente in maniera diversa».

Parlare con Adriano seduti all’imbocco della tribuna presidenziale significa che, ogni due tiri di sigaretta, si alza per salutare qualcuno che ha scorto quei capelli con l’onda che facevano palpitare il cuore delle ragazzine. Non tutto è interruzione: spesso gli intermezzi diventano parti della conversazione e, per questo, non tutti sono stati tagliati.

[Passa Virginia Ruzici, campionessa a Parigi 1978. Il discorso vira su una presunta vecchia fiamma]
«Chi?»
«Dai, Adriano, lei era una di migliori amice di Chris Evert: carina, femminile, bionda di capelli corti, come fai a non ricordartela?»
«No, il problema è che ieri ho detto alla tivù che da giocatore non sono mai stato fidanzato con una tennista e stamattina Virginia mi ha tirato fuori questa qui, Kris Kemmer… Me l’ero dimenticata. L’ho cercata su Internet per ricordarmi che faccia avesse. Carina. Comunque era prima del matrimonio, eh: meno male, sennò mi facevo una figura di…»

Dicevamo del passato.
«Il passato non era migliore o peggiore, era solo diverso. Noi uscivamo dal campo e andavamo qui accanto ai giardinetti (indica le serre d’Auteuil, nda) a mangiarci un gelato. Mica ci inseguivano le orde di tifosi. Adesso i giocatori arrivano e manco li vedi, sono circondati dai guardiaspalle: posso anche capirlo, guarda quanta gente c’è soltanto qua davanti…»

In questi giorni hanno tirato fuori un vecchio documentario senza commento, una meraviglia, si intitola The French: fu girato durante il Roland Garros del 1981 e c’è tutto, Nastase che fuma in mutande, Hana Mandlikova che passa la gonnella al ferro da stiro, la Ruzici che rosica per l’ennesima sconfitta contro Chris Evert. Pure Panatta che esce negli ottavi ma fa in tempo a suonarle ancora una volta a Solomon, lo stesso della finale di quarant’anni fa.
«Davvero l’ho battuto di nuovo, qui? Non me lo ricordavo».

Sì. Ma quello spirito di camaraderie si è perso.
«Penso sia normale. Le persone sono le stesse ma cambiano le circostanze: a parte il progresso tecnologico, nel tennis sono arrivati gli affari, le televisioni, un sacco di soldi. È logico che intorno a questa torta giri un sacco di gente, e che i rapporti non siano più così spontanei come un tempo. Ma credo che i tennisti non siano vittime di questo stato di cose, anzi, ritengo ne siano complici. E poi insomma, giocare a tennis non è sgobbare. Lavorare è tutta un’altra cosa».

Il vincitore di Parigi 1976 incassò qualche decina di migliaia di dollari, oggi il bottino è due milioni di euro. Nessun rimpianto per essere stato un campione nato nel 1950 e non nel 2000?
«No, non sono il tipo. Io ho giocato i miei anni, ho fatto quello che dovevo fare, ho smesso quando non ne avevo più. Che senso avrebbe mettersi a fare i conti di quello che sarebbe potuto essere?»

[Passa Stan Smith, mai vincitore qui, campione a Wimbledon e agli Us Open e tira dritto, con le “sue” adidas bianche con bande verdi]
«Ecco, ‘o vedi Smith? Quello era veramente un fijo de ‘na mignotta».

Stan Smith? Ma se in campo sembrava un angelo biondo, così elegante, quasi compito…
«Come no. Uno stronzo, era. Poi era fissato con ‘ste chiese: lui era un cristiano born again, insieme alla moglie. Uno strazio. Ma i peggiori erano i fratelli Mayer, Gene e Sandy. Mi volevano regalare dei libri per la conversione a non so quale setta: per convincerli a lasciarmi in pace, dissi loro che il mio sogno era quello di dichiarare guerra al Vaticano. Ero e sono un miscredente».

Eppure ha ripetuto più volte che il Roland Garros del 1976 fu segnato da un volere trascendente, come il match point salvato al primo turno con la volée in tuffo contro Pavel Hutka.
«Certo, ma infatti uno può avercela coi preti e credere comunque in un qualcosa di superiore. Quel torneo, per esempio, era segnato. Era già tutto scritto, anche se non so dove. A volte c’è una forma di magia che fa andare le cose in un certo modo proprio in quella maniera, ed è inutile stare lì a ragionare a posteriori sui motivi per cui qualcosa è successo o no: è talmente evidente…»

Anche il tuo modo di giocare era mistico: azzardi, tagli, colpi improbabili come la veronica.
«Era l’unica maniera in cui sentivo di poter giocare. Stare a fondo a fare tic e toc mi avrebbe fuso il cervello, prima ancora delle gambe».

[Passa Nicola Pietrangeli, campione a Parigi nel 1959 e 1960]
«Oh, Nicola, ma lo sai che tu sei pire que Santana?»
(Pietrangeli indica il numero cinque, spalancando la mano destra)
«Tu hai cinque anni in più di Manolo Santana? Ammazza. Incredibile, davvero. Ti sei indebitato col diavolo» chiude Adriano, che però non ripete la battuta fatta in telecronaca sugli Slam vinti prima dell’Era Open, quando molti tra i più forti giocavano per soldi e non potevano partecipare ai grandi tornei.

[Passa Claudia, quarta moglie di Manolo Santana, 78 anni, campione a Parigi nel 1961 e 1964. Conversazione irriferibile a tre, con Pietrangeli, su come una donna di trent’anni più giovane possa rappresentare un’alternativa efficace alla gerontofarmacia]

Anche non aver conservato i trofei fa parte dell’arte del distacco?
«Forse sì, ma non è una posa. La coppa che mi diedero qui nel ’76 non la buttai dalla finestra, solo che andò perduta. Credo nel corso di un trasloco. Ma che differenza fa? Se qualcuno va a cercare chi ha vinto il Roland Garros trova il mio nome, non è sufficiente? Devo avere in casa il museo?»

E le racchette regalate al bambino dopo l’ultima partita persa al Foro Italico?
«Anche quella è vera: ero stanco, mi sentivo alla fine. Quel bambinetto mi chiese una racchetta e io gli dissi toh, tieni, te le do tutte. Chissà che fine ha fatto: non le racchette, dico lui».

[Passa Patrick Proisy, finalista a Parigi nel 1972]
«Mamma mia santissima. Questo era un rompipalle… Ha pure fatto la finale qui, eh?»

Peggio di Solomon?
«No, nessuno era peggio di Solomon. Insopportabile. Quando mi chiedono di raccontare gli aneddoti mi stufo, ma questo no: negli spogliatoi, prima di entrare in campo per giocarci la finale, ci trovammo entrambi davanti allo specchio. Fissai dall’alto quelle gambe tozze e pelose e gli dissi: “Ehi, Solly, guardati, poi guarda me: ma dove vuoi andare?”».

Quarant’anni dopo Harold Solomon, detto Solly negli Usa e “sorcio” in Italia, sta a Fort Lauderdale e organizza corsi di tennis per ragazzini. Adriano è a Parigi, a fare Panatta.

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