Biografie sportive, Tracy Austin, Wallace e Ford: chi ha ragione?

di | 30 Ottobre 2019

Partiamo da una considerazione in parte opinabile ma assai verosimile: J. R. Moehringer è lo scrittore dalla classe superiore che ha plasmato la vita, i patemi e l’anima illetterata ma intensa di Andre Agassi, tossendo giù dai più ispirati angeli della letteratura di genere un testo da una quarantina di ristampe e 400.000 copie solo in Italia. Una combinazione rara di talenti ha elevato una forma di testo fortunato nelle vendite ma, solitamente, segnato da qualità narrative mediocri; prima di allora, ed era il 2009, le biografie sportive stagnavano nella categoria del libro commerciale brutto, scarso, di bassa tacca.

Il grande David Foster Wallace, purtroppo, di vite di tennisti non ne ha mai scritte. Ci ha lasciato poco prima che Agassi rivoluzionasse il settore. Però ne aveva lette a sufficienza per trarne un interrogativo: perché sono così brutte? E perché, nonostante la loro arcinota pochezza, la gente persevera nel comprarle? DFW aveva la sua risposta: il pubblico confida nel fatto che la vita raccontata di uno sportivo rivelerà il motivo che ha reso il tale atleta tra i migliori nel suo mestiere. Perché è difficile indicare, misurandolo si intende, chi sia l’architetto più bravo del mondo, o il giardiniere più geniale in Italia, mentre nello sport (nel tennis più che altrove) esistono classifiche che, al di là dei bizantinismi nel metodo di assegnazione e scadenza dei punti, indicano in modo elementare e accessibile a chiunque il numero uno, il numero due eccetera. Poi, tendenzialmente, gli sportivi sono belli: i loro gesti appagano lo sguardo, i loro corpi piacciono e creano ulteriore affezione e desiderio di vicinanza, che riaffiora in libreria. Infine, le persone si appassionano alle loro vicende e, anche se le hanno già seguite in tivù e riviste su YouTube fino alla noia, tornano volentieri a rileggersele, per rivivere quelle sensazioni piacevoli e appaganti, con il plus della voce narrante che si identifica con il protagonista. Bene.

Wallace fa un passo innanzi, allargando il senso del ragionamento. Nel saggio Come Tracy Austin mi ha spezzato il cuore, scrive così:

Né Tracy Austin né il suo libro sono casi unici. È difficile non notare come questa stessa aria di banalità robotica soffonde non solo il genere dell’autobiografia sportiva ma anche i rituali mediatici in cui si chiede a un grande atleta di descrivere il contenuto o il significato della sua téchne. Ascoltate qualsiasi intervista televisiva postgara:

  • Kenny, cos’hai provato mentre segnavi il punto della vittoria con quella sensazionale, risicatissima presa in area di meta con assolutamente, zero, e dico zero secondi rimasti?

  • Be’, Frank, mi sono sentito solo molto soddisfatto. Ero felicissimo e anche soddisfatto. Tutti noi abbiamo lavorato sodo e siamo cresciuti parecchio come squadra, ed è sempre bello quando senti di poter dare una mano.

  • Mark, le ultime otto volte che ti sei trovato alla battuta hai segnato un home run e sei in testa alle classifiche dei battitori di entrambe le federazioni. Qualche commento?

  • Be’, Bob, cerco solo di prenderla una lancio per volta. Sai, mi concentro sui fondamentali, cerco di fare la mia parte, e tutti noi sappiamo che dobbiamo procedere una partita per volta e restare concentrati e non guardare avanti e dare sempre il meglio momento per momento.

Provate ad astrarre questi contenuti da visi, nomi e voci a voi familiari. Ci si rende immediatamente conto di quanto siano vuoti, stupidi e soprattutto sempre uguali a loro stessi. Dopodiché, con un piccolo sforzo, li possiamo facilmente ricollegare a uno qualunque dei campioni del tennis, intervistati dopo una qualsiasi partita. Wallace chiama – come dargli torto – «insulsaggine narrativa» quella di Tracy Austin che, effettivamente, è (co)autrice di un libro sulla sua vita di così scialbo da chiedersi come qualcuno possa averlo apprezzato. La campionessa liquida episodi tragici della sua vita con una tale superficialità da alimentare sospetti sulla sua stessa intelligenza: ex numero uno del mondo poco più che bambina, fu vittima di un incidente nel pieno di una carriera straordinaria ed eccezionalmente remunerativa. Dovette lasciare il tennis da un giorno all’altro: la sua unica ragione di vita era stata spazzata via in un attimo. Eppure, nel suo memoir, commenta quell’episodio con laconicità agghiacciante: «Accettai rapidamente il fatto di non poterci fare nulla». Così, fine. Noi uomini qualunque ci disperiamo per una distorsione, o un contratto che scade; lei, appena saputo che non potrà mai più fare ciò che la aveva resa planetariamente famosa, scrolla le spalle. Possibile? Sì, a seguire il filo di Wallace.

 Questa roba è stupefacente, eppure sembra anche inevitabile, forse persino necessaria. I baritoni ingiacchettati dei network continuano a presentarsi dopo le partite, richiedendo a dei geni fisici queste sequenze ricombinanti di cliché morti, sequenze che dopo un po’ iniziano a suonare come una strana ninna nanna, e che naturalmente nessun network solleciterebbe e trasmetterebbe a ruota se non ci fosse un vasto pubblico là fuori che trova le banalità buone e giuste. Come se la vacuità nel modo in cui questi atleti descrivono le proprie emozioni confermasse qualcosa in cui abbiamo bisogno di credere.

Tracy Austin (1962), ex numero 1 Wta, enfant prodige

Peraltro, se Foster Wallace avesse potuto allargare la bibliografia a lavori più recenti, avrebbe trovato ampio materiale per corroborare la sua proposizione. Nella biografia di Rafael Nadal (scritta curiosamente nel 2011, per cui oggi totalmente inutile ai fini del racconto di una carriera) si leggono descrizioni di momenti epici degni della prosa di un ragazzino di prima media, nonostante la presenza di un coautore professionista (è il giornalista John Carlin). Eppure, ha venduto bene. La vita di Nadal narrata, almeno formalmente, da Nadal si apre con questa statuizione: «Il silenzio, è quello che ti colpisce quando giochi sul centrale di Wimbledon». Terrore. Poi, al di là dell’effetto straniante di Rafa che esordisce raccontando Wimbledon e non lo Slam di cui è proprietario da 15 anni, si dilunga sulla «ricca storia dell’antico stadio», la «venerabile tradizione» del club; e lui, Rafael, che ha «sempre sognato di giocare» uno sport in cui «la vittoria si ottiene con piccoli margini», perché «giocare contro uno che puoi sconfiggere sta tutto nell’elevare il tuo gioco quando è necessario».
Volendo perdonare il lessico, forse anche vittima di un traduttore distratto e a-competente in materia, i contenuti sono in piena regola Wallace. “Alzare il livello”, nelle sue numerose varianti, è per esempio una locuzione che non significa nulla: eppoi, se bastasse volerlo fare, ci sarebbero milioni di Rafa in circolazione, con le loro collezioni di titoli major. Ciononostante, viene ripetuta a cantilena da Nadal e da una nutrita compagnia di colleghi e tutti ascoltano, registrano, scrivono, pubblicano. E le persone sentono e leggono sempre le stesse parole, senza farsi domande. I più avvezzi potrebbero anticipare facilmente le risposte di certi divi del tennis, forse anche senza ascoltare la domanda. Eppure, se tutti sapessero come si fa a dare il massimo nei momenti importanti, avremmo almeno trenta numero uno del mondo ex aequo.

In ciò che resta del libro di Nadal, purtroppo, non si cambia marcia. Della rivalità con Federer, la più stuzzicante di tutta la storia del nostro sport nonché una vicenda dagli spunti narrativi sterminati, la bioRafa ha lasciato tracce di questa fatta: «Qualche volta ho visto alcuni video di Federer in campo e sono rimasto impressionato dalla sua bravura». Le descrizioni di punti decisivi delle finali contro Roger? Tenetevi forte: «Risposi male a un servizio, un colpo corto in mezzo al campo, e gli cedetti il punto. Poi non riuscii a ribattere un altro servizio, che era buono, quindi avanti al punto successivo. Avevo un’ultima possibilità di sconfiggerlo (sic) prima che raggiungesse la parità». Prima di arrestarci, resti agli atti che Novak Djokovic, proprio da quel 2011 nemico più tosto di Nadal, viene presentato ai lettori come un tennista «veloce, instancabile e forte – spesso sensazionale – sia sul dritto, sia sul rovescio».

I prodotti che ricadono sotto la regola Wallace sono parecchi: A champion’s mind di Pete Sampras (2009), curata dal bravo Peter Bodo, venne presentata come “il quindicesimo Slam di Sampras” (ai tempi, era ancora il recordman di collezione dei grandi tornei). L’incipit è un saggio del tenore dell’opera tutta: «Non sono sicuro sia necessario sapere chi sei e cosa vuoi fin dall’inizio, per diventare un grande giocatore di tennis. Tennisti diversi ci sono arrivati in maniere diverse. Ma io lo sapevo. Dal primo giorno sapevo che ero nato per giocare a tennis. […] Non ho ricordi di quando vivevo a Potomac, ma ricordo che impugnavo già una racchetta e la trattavo come fosse il giocattolo più bello che potesse esistere, o qualcosa del genere». E si arriva ai ringraziamenti senza che mai si sia grattato sotto la superficie di un fenomeno che è rimasto, nella sua immortalità tennistica, di una banalità sconcertante anche nel diario di vita.

Ora: lasciando in pace l’unicum di Agassi, e stabilito che le biografie sportive rimangono in assoluta percentuale prodotti di fascia inferiore, è interessante riflettere sulla deduzione di DFW. Se davvero i campioni dello sport siano tali anche perché non lo sentono davvero, nel tie-break di una finale Slam, il peso di qualche milione di occhi addosso. Almeno, non come faremmo noi. Non si fanno sopraffare da pensieri, ragionamenti cervellotici, considerazioni sofistiche sul senso di ciò che stanno facendo, e sulla precarietà del loro gesto, né dall’ansia che attanaglia chiunque abbia giocato anche il primo turno del torneo sociale del dopolavoro, quando neppure il solito dritto lungolinea che non sbagliamo mai arriva a malapena a toccare la rete, se in palio c’è un punto importante e si sono fermate tre persone a guardarti. Sguardi e pensieri di mezzo mondo puntati su un individuo solo annichilirebbero qualunque persona normale, tanto da non riuscire neanche ad alzarsi la palla. Loro no: non ci pensano, e stop. Da un impatto con l’incordatura e dal fatto che la palla rimanga o meno dentro le righe dipendono due milioni di euro euro, la gloria o il nulla? Non ci pensano. Noi, i loro lettori, dovessimo scommetterne cento ai dadi, quasi certamente ci faremmo prendere dalla tremarella e manco riusciremmo a tirarli su un tavolo. Sicché, quando si chiede a un atleta di tradurre quei momenti in parole, capita che non abbia niente da dire, se non ripetere ciò che è stato. Hai cancellato un match point in una semifinale agli Us Open con un ace di seconda? «Mmm, sì, in quel momento sono rimasto concentrato e ho servito bene».

E allora: forse per questo, si è domandato Wallace, i campioni sono individui poco intelligenti? Oppure è vera un’altra cosa, cioè che riescono a elevare il loro spirito sopra tutti i catenacci della mente, come i santoni indiani, spogliandosi delle scorie della mente che noi magari chiamiamo intelligenza?

Nel medesimo testo, l’autore suggerisce una via d’uscita: potrebbe essere che, effettivamente, i campioni dello sport siano dei fenomeni nel loro mestiere ma, suppergiù, complessivamente dei tonti. Oppure, più benevolmente, quando dicono «nel terzo set ho pensato un punto per volta», semplicemente lo abbiano pensato e fatto e che sia arbitrario, da parte nostra, giudicarli senza appello dei cretinotti, anche perché si tratta – in pressoché tutti i casi – di giovani che hanno dedicato la maggioranza assoluta del loro tempo alla loro disciplina, restringendo spazi e pensieri dedicati a tutto il resto: «Questo, per me (dice Wallace) è il vero mistero: se una persona del genere (Tracy Austin, nda) sia un’idiota, o una mistica, o entrambe e/o nessuna delle due. La sola certezza pare essere che una persona del genere non produce una bella autobiografia in prosa».

Il problema insomma, e per qualcuno di quelli che si occupano di sport è veramente un cruccio, è che il materiale in circolazione con cui si producono notizie scritte e filmate è, al 90%, figlio del medesimo stampo: un pastone di dabbenaggine, banalità, ipocrisia, scontatezza, piattume. Che, per di più, viene accolto con favore dal grande pubblico. Certo, di tanto in tanto fanno notizia gli scazzi, i dispetti, i litigi, le parolacce, i rari cafoni che non si contengono e hanno trovato, con Facebook, Twitter o Instagram, il loro sfogatoio non più mediato da giornali e tivù. Ma è un contorno. Tutto ciò che è filtrato da un microfono o da un registratore suona come la ninna nanna rievocata da DFW, un vacuo buonismo imperante che ripete il suo rito stanco ogni settimana. Il torneo è sempre bellissimo; l’avversario di primo turno, sempre difficile da affrontare, chiunque esso sia – anche se è il custode del circolo entrato con una wild card. L’ultima partita? Vinta con un pizzico di fortuna, e dispiace sempre per l’altro, che è un grande giocatore e sicuramente si rifarà. Il sorteggio? No, quello non lo si guarda mai, perché i tornei si affrontano partita per partita. Tutti i giocatori pensano a un avversario per volta, dicono che l’importante è dare il massimo e poi si vedrà, raccontano che tornare dopo l’infortunio è stata dura ma che con il lavoro i risultati arrivano (per loro; quasi tutti gli altri lavorano e non vincono mai); in ogni media day parte un florilegio di “essere qui è un onore”, “lui/lei è un grande campione per cui ho molto rispetto”, “non mi ritengo il favorito”, “devo concentrarmi sul fare le mie cose”, “il torneo è aperto”, “vedo giovani che giocano bene”.
Tanto varrebbe disertarle, tale è la somiglianza a sé di tutte le press conference di inaugurazione, anno dopo anno; o ripubblicare la pagina di giornale dell’anno precedente, correggendo date e dettagli. Eppure, l’invariabile domanda «Cosa provi a essere il campione in carica?» o «Ti dispiace che si sia ritirato il tuo rivale Caio?» verrà posta, e la risposta sarà sempre «Sì, molto, e spero si riprenda presto», anche quando chi parla si augura che Caio si faccia così male da non poter mai più camminare, altro che giocare a tennis. Non va meglio dopo la partita, se la replica a quale sia stato il momento chiave del match è, tendenzialmente, racchiusa nel concetto lapalissiano di «essere riuscito a giocare bene quando contava» (ma davvero?).

Il fatto che ogni parola sia presa e replicata in diretta in tutto il mondo, certo, non aiuta: il velo di ipocrisia degli sportivi al microfono è anche un’autodifesa, un modo per evitare altre scocciature. Non dico niente, così non si innescheranno polemiche, non si costruiranno casi sulle mie dichiarazioni e io me ne tornerò alla svelta in albergo. Eppure Foster Wallace ha ragione: questo pastone offerto agli utenti piace, vende, funziona e continua a funzionare. E non è semplice capire quanta complicità ci sia da parte di chi le domande le pone. La locuzione «spero di fare bene», che non significa nulla, è la più usata da tutti gli sportivi cui si chieda un pensiero sull’impegno incombente. Lo ripetono, da anni, frotte di calciatori, cestisti, pallavolisti, piloti di Formula Uno e del motomondiale. E tennisti, va da sé. Fare bene. Non “vincere”, perché suonerebbe come una superbia inopportuna, e pure un poco portarogna. Fare bene: come se qualcuno giocasse sperando di fare male. Quando tutti quelli che vivono il Tour del tennis da vicino sanno che, se spuntasse un pulsante per far inciampare e ritirare l’avversario e passare il turno, nei primi cento giocatori al mondo soltanto uno o due non ci si butterebbe su, mani e piedi, per assicurarsi di averlo premuto a fondo. Nessuno ha mai ammesso di essere contento che l’altro si sia dovuto ritirare, anzi. Eppure, il pubblico non si stanca mai di sentire ripetere il testo del perfetto giocatore democristiano.

Ma c’è un’altra maniera di leggere tutto ciò, senza che il cane si morda la coda o rischi l’impertinenza, nel chiedersi se è la stupidità di chi ascolta che ha creato l’eloquio stupido degli sportivi o se ci si è adagiati su cliché nati dalla pochezza intellettuale dei campioni, perché l’unica eccellenza che si richiede loro è circoscritta nei confini del campo di gioco. A suggerirla è Richard Ford, inventore del personaggio letterario Frank Bascombe, un giornalista sportivo di talento la cui vita è mandata in frantumi dalla morte del primogenito. Bascombe, a un certo punto, riflette sui campioni dello sport che incontra continuamente per lavoro.

In generale, sono ben lieti di parlare di sé per le proprie azioni, sono gente felice di essere quello che è. Di conseguenza, quando parli a un atleta […] non ti è possibile sentirti in alcun modo estraneo o alienato, o provare un solo grammo di angoscia esistenziale. Magari lui sta pensando a una cassa di birra, o a un barbecue, o a una ragazza […] ma puoi scommettere che non si preoccupa affatto di te e di cosa ti passa per la mente. Il suo è un tipo raro di egoismo che impedisce di guardare oltre le proprie emozioni per chiedersi se c’è una alternativa a quello che si sta dicendo, o a quello a cui si sta pensando. In effetti, un atleta al culmine del suo potere riesce a fare della letteralità una forma tutta sua di mistero, limitandosi a farsi assorbire da quello che fa.

Questa sì, che potrebbe essere un’interpretazione del tutto. Secondo Ford, che giornalista sportivo è lo stato davvero prima di dedicarsi ai romanzi, gli atleti professionisti sono stati talmente abituati, fin da bambini, a concentrarsi solo sulle poche cose che fanno (nel tennis, colpire una palla senza sbagliare in qualunque contesto, dal cortile di casa al centrale degli Us Open) che si sono adagiati in quella che lui chiama «piacevole unidimensionalità». Del resto, avrebbe senso pensare al contratto di acquisto della casa, alla zia malata, al senso della vita, alla tristezza dell’ultimo Natale senza papà che ha divorziato, all’investimento consigliato dal broker e andato male mentre ci si allena, o si gioca, o si prepara la partita? No. Anzi, dice Bascombe, aprire a un atleta gli occhi sulla complessità del mondo «li può spaventare a morte, perché mostra loro che il mondo […] è più complesso di quanto la loro formazione li abbia preparati ad affrontare. Di conseguenza, spesso preferiscono ascoltare la propria voce e le proprie domande, o le chiacchiere dei loro compagni di squadra (anche se magari sono in spagnolo)». In effetti, la vita di un tennista di mestiere è una bolla: cambiano gli sfondi e i continenti, ma quello è: Nadal contro Djokovic lo si è visto settanta volte, da un capo all’altro del mondo ma sempre su un rettangolo con una rete in mezzo, e loro due a fare sempre quello, menare la palla a più non posso.

Ford ha la sua versione anche sulla liturgia delle interviste:

Se uno vuole fare il giornalista sportivo, deve modellare la sua voce sulla loro e sulle loro risposte. “Come pensate di fare per vincere questa partita, Stu?” La risposta, ovviamente, potrà coincidere con la verità – “Beh, scenderemo in campo e faremo il nostro solito gioco, Frank, perché è così che siamo arrivati dove siamo arrivati” – ma sarà la loro semplice verità, non la tua, che magari è complicata, a meno che, naturalmente, anche tu non sia d’accordo con loro.

Per mettere d’accordo Wallace e Ford, o scegliere la più convincente delle loro tesi variegate, servirebbe un saggio, di peso omologo, su chi parla e scrive degli sportivi. Ma andrebbe condotta da un terzo super partes; ché parlare male dei propri colleghi, almeno in pubblico, è un esercizio ritenuto tuttora sconveniente.

[Pubblicato su Il Tennis Italiano, aprile 2019]

Un pensiero su “Biografie sportive, Tracy Austin, Wallace e Ford: chi ha ragione?

  1. Emanuele Rosso

    Ciao Federico, ho letto con piacere questo articolo (così come molte altre delle cose che hai scritto), e ti ho spesso seguito in telecronaca. Non trovando un tuo indirizzo e-mail, sfrutto questo spazio perché ci tengo molto a segnalarti la recente pubblicazione di un graphic novel sul tennis (da me scritto e disegnato), che deve molto a Wallace e soprattutto al saggio su Tracy Austin, sebbene poi il mio lavoro sia un mix di realtà e finzione, una sorta di mockumentary, in cui un tennista sconosciuto affronta i più grandi campioni del tennis contemporaneo, da Federer a Nadal, passando per Djokovic e Murray (ma c’è dentro anche una certa dose di letterarietà).

    Qua il link sul sito della casa editrice: https://www.fandangoeditore.it/shop/marchi-editoriali/coconino-press/coconino-cult/goat/

    Se fossi incuriosito (mi auguro), posso chiedere all’ufficio stampa di farti avere un pdf o, eventualmente, anche una copia cartacea!

    Grazie mille dell’attenzione,

    Emanuele

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