Satana Acceleratore

di | 31 Dicembre 2013

[pubblicato sull’Unità del 31 dicembre 2013]

Mike Hawthorn

Mike Hawthorn

Mike Hawthorn, campione del mondo con la Ferrari nel 1958, la sua sciocca e imprescindibile gara contro il rischio finì per perderla non al Gran Premio di Monaco, dove s’era tenuto alle spalle anche il mitico Fangio, ma qualche mese dopo, su un triste rettilineo nebbioso della circonvallazione di Guildford. Sorpassò a tutto gas il figlio del re del whisky, Johnny Walker, che fu l’ultimo a vederne la sagoma da vivo. Poi andò a schiantarsi contro un muro, lui e la sua Jaguar truccata per superare i 200 all’ora. Addio vita: gli mancavano tre mesi per compiere trent’anni.

Non fu il primo martire di Satana Acceleratore. All’alba dei tempi moderni Nino Farina, altro uomo contagiato dal mal di velocità – la genià Pininfarina non mente – finì il suo cammino in Terra da spettatore, mentre si accompagnava a seguire dalla tribuna il Gran Premio di Reims del 1966. Aveva 60 anni, era stato il primo iridato della neonata Formula 1 nel 1950; spingeva a tavoletta la sua Ford Cortina Lotus sulla statale quando, all’altezza del paesello di Aiguebelle, i testimoni videro una saetta prendere una curva a velocità improponibile, prima di udire un gran botto.

L’ovvia retorica del pilota che si nutre di endorfine e scariche di adrenalina torna in auge a quasi vent’anni dagli ultimi morti in servizio in Formula 1, in quel lugubre Imola ’94 costato la pelle al dimenticato Roland Ratzenberger e all’idolo Ayrton Senna. Ai tempi, prossimo al primo Mondiale, il giovane Michael Schumacher era in procinto di far assaggiare al mondo il suo talento a bordo di una Benetton. Come immaginare che l’appuntamento peggiore di una vita trascorsa a limare millesimi, combattendo contro forze centrifughe da top gun a bordo di un Phantom, Schumi lo avrebbe combinato in famiglia, su una pista da sci, prima del brindisi di Capodanno. Fuori pista, cambio di pista: si chiarirà, col tempo. Ora sappiamo solo che la velocità avrebbe certamente ucciso sul colpo il Kaiser, se un casco non si fosse frapposto tra una roccia di Méribel e il suo cranio.

Didier Pironi e Gilles Villeneuve

Didier Pironi e Gilles Villeneuve

Mai stato un mattacchione, Michael. Lo era, eccome, Didier Pironi, ragazzo della banlieue parigina arso dal fuoco dell’azzardo e della competizione: gli seccava, per esempio, dover essere il secondo di Gilles Villeneuve alla Ferrari. La sorte gli impose il cartellino giallo nel 1982, settimane dopo la morte del compagno di squadra, con un incidente da film horror al Gran Premio del Canada. Non se lo fece bastare: dopo trenta operazioni alle gambe, scarnificate da un impatto terribile, non si rassegnò all’addio al tachimetro. Passò all’offshore, specialità riservata a una nicchia di coraggiosi, o di incoscienti, finché non lanciò il suo Colibrì a 170 all’ora nello specchio d’acqua davanti all’isola di Wight per raggiungere il leader. Ribaltamento, accartocciamento, fine di Didier e delle rincorse a se stesso.

Patrick Depailler

Patrick Depailler

Affiancare il rischio alla ragione è insano, eppure c’è una categoria di esseri umani che fa del rischio una ragione per cui valga la pena sia esserci, sia morire. Non glielo si può più domandare, ma la carriera dell’anticonformista Patrick Depailler è un totem al concetto di vita al limite. Saldate le ossa spezzate tra moto da trial e ogni sorta di quattroruote, ottenne la licenza per il circo dei superuomini al volante ma vinse poco – appena due GP – perché era pazzo: tra una gara e l’altra, in lotta per il titolo nel 1979, si andò a schiantare col deltaplano. Un campanello d’allarme, ignorato. Durante un test a Hockenheim con l’Alfa, l’anno dopo, nel pieno dell’insidiosa Ostkurve la sua convinzione secondo cui «dominare un pezzo di ferro dipende da te» non trovò più conferma.

E che dire di Colin McRae, l’eccentrico rallysta britannico col vizio di far capolino nell’altra dimensione? Da baby pensionato ci provò con la Dakar, si salvò. Fuori stagione non giocava a carte, pilotava elicotteri: tentando di atterrare vicino a casa, prese un albero con le pale. Il suo gioiello prese fuoco e si portò via tra le fiamme lui, il figlioletto e altre due persone.

Fremeva anche Robert Kubica, dalla Renault di F1 a un rally in provincia di Savona: gloria o dimenticatoio, correre è correre. Dai resti accartocciati della Skoda Fabia, un’auto che i padri di famiglia usano per portare la famiglia al centro commerciale, lo tirarono fuori vivo: il muro contro cui aveva sbattuto era quello di una chiesa.

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