Angelo Gaja, il barbaresco del re. E quella volta con Fenoglio

di | 14 Febbraio 2018

[Pubblicato sul Corriere della sera, pagine di Torino, il 9 febbraio 2018] «Mio padre si firmava “geometra Giovanni Gaja”, anche in etichetta». Tanto che il maestro Veronelli gli consigliò, senza successo, di rinunciare a quella esibizione da Monsù Travet: «Lui ci teneva. È stato uno dei più completi artigiani del vino in Italia, aveva un progetto folle e lo realizzò: competere col barolo». Con il barbaresco, venduto a prezzi da Borgogna, dove i cugini ricchi iniziarono a far soldi col vino quando i contadini piemontesi lo tracannavano per levarsi la fame e, il sovrappiù, lo vendevano per due lire, tappato in bottiglioni.

La storia del successo di Angelo Gaja, classe 1940, indiscusso patriarca del barbaresco (e spesso indiscutibile: più dei dialoghi, ama i monologhi) nasce nel centenario dell’Unità: «Ho messo piede in azienda nel 1961 ereditando il coraggio di mio padre, che andava in vigna con le forbici, a buttare via grappoli meno buoni. Una bestemmia, ai tempi: si pensava fosse un peccato contro Dio e la natura, che ci dava frutti che noi osavamo scartare. Per tranquillizzare i suoi mezzadri, li fece salariati: così, lavoravano sereni». Anche quelli che pensavano fosse un matto.

Oggi, il marchio è una storia che suscita ammirazione e più di una invidia; dietro quel portone scuro, in centro del paese a Barbaresco, c’è un piccolo mondo. Governato da lui, Angelo, dalla moglie Lucia e dai figli: Gaia (senza j), Giovanni e Rossana, che si occupa del mercato italiano e, dopo la scuola enologica, si è laureata in psicologia: «E le assicuro che serve, anche per fare il vino». Dev’essere ingombrante, un padre così. «Più che altro impegnativo – dice. Si sveglia prima di tutti, alle quattro del mattino». Per leggere la sua mazzetta di quotidiani e, non di rado, fiondarsi in aeroporto e volare in Sicilia, entusiasta come un ragazzino: dopo gli investimenti degli anni Novanta nel barolo e in Toscana, ora ha comprato vigneti sull’Etna.

In Borgogna, con una superficie vitata simile, decine di produttori sono famosi come Chanel e Dior; qui, nelle Langhe, la griffe globale è Gaja: «Certo, perché i francesi sono molto avanti con il discorso della qualità, hanno iniziato da tempo immemore a non imbottigliare tutte le annate, a lavorare sull’eccellenza». A farsi un nome, via: solo che, nella cultura locale, l’affermazione di sé è un’offesa al Padreterno e al pudore. E quando Monsù Gaja ebbe l’ardire di presentare un barbaresco su cui si stagliava, a caratteri cubitali, il nome del produttore, «fu una rivoluzione. Ricordo quella volta al bar Savona di Alba, ero un ragazzo. A un certo punto arrivò Beppe Fenoglio con degli amici; uno di loro mi riconobbe e, siccome non stavo cedendo il tavolo da biliardo, disse che io ero il “figlio di quel geometra che vende il barbaresco col nome”. Manco fosse stato un disonore». Una volta tanto, rimase senza parole.

Con la quinta generazione di famiglia, le due donne e il ragazzo che sta macinando i marciapiedi di New York per imparare a vendere, Angelo condivide la foga del fare: studi climatici, lotte alternative ai parassiti, ciclopici lavori sotterranei per ospitare le uve vendemmiate in una ricerca maniacale del più, del meglio. Difficilmente chiude una conversazione senza citare i comandamenti che nonna Clotilde gli passò in dote, come uno scioglilingua: «Fare, saper fare, saper far fare, far sapere».

Di tanto in tanto, la figliolanza torna all’attacco per l’unica rivoluzione frenata dal patriarca, il web. Il sito di Gaja è un inno al minimalismo: pagina statica nera, quattro lettere prepotenti, che valgono oro. «Ci sono ottimi vini che costano meno dei miei. C’è spazio per tutti, ne trovi di buoni pure al supermercato».

Al ristorante sotto la torre, dove pranza quasi ogni giorno, conoscono vezzi e debolezze di Angelo: come i tajarin mangiati come antipasto, un costume che ricorda l’orologio sul polsino di Agnelli. Se chiedi la fonte di tanta energia, Rossana risponde che papà vive in movimento e fermarsi sarebbe la fine; l’unica domanda su cui Gaja tentenna, è sul senso del tutto. Forse gli piacerebbe Giovanni Giudici, quando scriveva che ricominciare è l’unico modo di esserci.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.