Michael Joyce e quell’estate con Foster Wallace

di | 22 Agosto 2019

Michael Joyce aveva 22 anni e non era nessuno, fatto salvo quello zero virgola percento di pubblico veramente incallito che conosceva anche Udo Riglewski, quando la rivista Esquire diede mandato a David Foster Wallace di travestirsi da reporter per uno scorcio di estate – era stato lo sport della sua giovinezza, il tennis – e di restituire lo sguardo sul gioco di un osservatore acutissimo, dal talento letterario sovrabbondante. Esquire pubblicò il pezzo con il titolo “La teoria delle stringhe”, giocando sul doppio significato di string, che è lo stesso termine usato per le corde delle racchette. Carino, ma non era un titolo da Wallace. Difatti, quando finì nella raccolta Tennis, tv, trigonometria, tornado (e altre cose divertenti che non farò mai più) il saggio aveva cambiato intestazione e il titolo – che poi è un sommario concettoso – finalmente denunciava ciò che Wallace stava per offrire al lettore: “L’abilità professionistica del tennista Michael Joyce come paradigma di una serie di cose tipo la scelta, la libertà, i limiti, la gioia, l’assurdità e la completezza dell’essere umano”.

Credo di capire Michael Joyce, mentre lo interrogo su quell’esperienza straniante. So che non gli era affatto piaciuta; al pari di Federer, si era trovato a disagio in quei venti minuti trascorsi nell’ufficio dell’Atp a Wimbledon 2006 in compagnia di David Foster Wallace, inviato dal New York Times e in procinto di dare vita a Federer come esperienza religiosa[1], l’articolo tennistico più letto di sempre. Roger nicchiava ma aveva fatto un favore a un addetto dell’Atp, che lo aveva pregato di dedicare un po’ del sacro tempo del tre volte campione in carica al suo scrittore di culto.

Nel 1995, però, Wallace non aveva ancora pubblicato Infinite Jest e l’aura del novellista fuoriclasse non lo aveva ancora ammantato: sicché c’era il fastidio di avere a che fare con una persona “bizzarra”, come la definì Federer, che poi è l’“off”, svitato, usato oggi da Joyce, non ancora compensato dalla piena consapevolezza della sua qualità.

Una situazione curiosa: un giocatore in penombra (best ranking 64, nessun torneo vinto, un ottavo di finale a Wimbledon) diventò, in fondo suo malgrado, protagonista del racconto di tennis in forma di saggio più divertente, acuto e celebre di ogni tempo ma lui, il personaggio cardine, ne era in qualche modo rimasto ai margini. Non come il celeberrimo RF, la cui intervista fu tanto deludente da essere confinata in una nota dell’articolo per il Times ma venne agilmente rimpiazzata senza rimpianti dai suoi gesti atletici in uno Slam che avrebbe dominato[2]. Nel testo del 1995, Joyce è presente, pure spesso. «Ogni tanto Wallace mi intervistava», ricorda, e ci sono numerosi sprazzi di quelle conversazioni infilati qua e là, a commento e a specificazione di avvenimenti e analisi. Ma Joyce è un giocatore anonimo, impegnato nelle qualificazioni contro Danny Brakus; è un mezzo, uno speculum. Una scusa. «Ricordo che, quando lo lessi per la prima volta, arrivai al fondo dell’articolo ed ebbi una brutta sensazione. Non mi era piaciuto: Wallace aveva scritto un sacco di cose sue, personali, e fatto osservazioni che a quei tempi o non capivo o che credevo fossero stupide». Non poteva che essere così. Quando gli spiego come era andata tra Wallace e Federer nel 2006, e delle lamentele di Roger, Joyce trova la chiave di quelle sensazioni di scomodità intellettuale che aveva precorso rispetto a Federer: «Non sapevo nulla di questa storia, ma non mi sorprende. Non sto dicendo che fosse un maleducato, anzi: aveva un modo di parlare gentile e piacevole, era un bravo ragazzo. Un po’ eccentrico, ecco. È che Wallace non era il tipico giornalista da torneo di tennis e, per di più, era molto, ma molto intelligente. Probabilmente un gradino sopra Roger: credo che quel loro incontro sia andato così per questa ragione».

Quando uscì il saggio (luglio 1996) Joyce credeva di tenere per le mani un regalo straordinario: la biografia istantanea di un tennista mediamente oscuro firmata da un narratore americano dalla fama nel frattempo straordinariamente cresciuta, che nell’estate passata aveva scelto – vai a capire perché – proprio lui e non Agassi, né Sampras, né Courier né Chang per farsi raccontare lo sport del cuore. Non era andata così: del resto gli sportivi non sono quasi mai in grado di rendere a parole l’eccezionalità della loro arte tecnica ed è difficile farne loro una colpa. Quando si fa descrivere un trionfo a chiunque, specialmente a un fuoriclasse, è pressoché scontato ricavarne un resoconto da scuola dell’obbligo: “momento speciale”, “grande soddisfazione”, “grande gioia”, cose così. E non è che Joyce fosse uno stupidotto, tutt’altro: è che Wallace abitava al piano superiore, scriveva in una lingua che Michael Joyce e qualunque sportivo, fatalmente, fatica a maneggiare. Gli atleti di mestiere sono quasi sempre ignoranti per costrizione, hanno fatto sport, sport e ancora sport dalla pubertà; concedere tempo all’educazione è una rarità che si riscontra per lo più nel caso di ragazzi molto intelligenti e con famiglia “studiata” alle spalle[3]. Joyce rientrava nella media del tennista a-culturato e mette appena conto di dire che Wallace gli prese subito le misure: «Gli interessi di Michael Joyce consistono soprattutto in film a grosso budget e romanzi di genere, sul tipo dei tascabili da supermercato che si leggono in aereo. In altre parole, non ha in realtà altri interessi all’infuori del tennis». Soprattutto, a Wallace interessava servirsi di Joyce per raccontare la sua visione e versione del tennis.

Essere lo specchio della fama di uno scrittore dev’essere stato fastidioso. La grande maggioranza delle persone che fermavano Michael Joyce nei tornei dal 1995 in poi, mi spiega, non gli chiedevano autografi o notizie di lui, ma di Foster Wallace (in fin dei conti, è esattamente ciò che sto facendo io: peraltro, Joyce non sembra scocciato[4]). Era indubbiamente un paradosso. Gli domando i dettagli di quella convivenza. «Andò così: passammo insieme tre o quattro settimane in estate, non consecutive. Venne a Montréal per l’Open del Canada e per qualche giorno si presentò a New York durante gli Us Open. Praticamente si mise alle calcagna del mio coach, Sam Aparicio, e mie: dividevamo le automobili, a volte mangiavamo insieme, ogni tanto mi intervistava. Capivo, o meglio, intuivo che fosse un tipo molto profondo e un grande scrittore dal fatto che mi poneva un sacco di domande cui non avevo mai risposto. Anzi, spesso erano cose cui non avevo mai pensato, neanche lontanamente». Simpatia e complicità, non pervenute. Un principio di amicizia, per carità.

L’espressione migliore che Joyce usa per descrivere la presenza al suo fianco di Wallace, in quella estate di metà anni Novanta, è «una mosca sul muro». L’inviato di Esquire voleva prendere il taxi, parlare, ordinare pasta e frutta, annoiarsi con Joyce e capire cosa davvero significasse essere assunti a tempo pieno nel tennis giocato, quali doti fossero necessarie per rimanerci e quale mentalità aiutasse a non impazzire. Non farselo amico, né imparare i mezzucci e la scaltrezza del giornalista sportivo scafato. «I tennisti – annota Wallace nel saggio – hanno un aspetto infelice e introverso di persone che passano enormi quantità di tempo sugli aerei e ad aspettare con le mani in mano nelle hall degli alberghi, l’aria di persone che devono crearsi intorno un guscio di privacy usando soltanto la propria espressione». Sono considerazioni che la tivù non trasmetterebbe mai, perché il suo mestiere è accendere l’occhio sullo show del campo centrale e chiuderlo per dare la linea alla pubblicità quando i tennisti spariscono dietro il tendone, tenendo incollata la maggior quantità possibile di paia di occhi. Purtroppo, poi, capita che ormai raramente anche la stampa scritta faccia di più: un po’ per l’abitudine dei pochi, resistenti e vecchi inviati a vivere i tornei da spettatori annoiati, privilegiati perché pagati per esserci: caracollano tra la tribuna riservata e la sala stampa o sbadigliando in faccia ai monitor accesi sui campi secondari e sulle salette delle interviste collegate in audio-video. Ma anche, anzi soprattutto, perché mancano giovani rimpiazzi attrezzati[5].

Sono passati vent’anni dalla “teoria delle stringhe”. Michael Joyce ha smesso di giocare da un pezzo e nessuno se ne sarebbe accorto, se non avesse accompagnato la carriera di Maria Sharapova per sei anni e mezzo[6]. Non trova nulla di strano nel raccontare che nonostante Tennis, tv, trigonometria, tornado (e altre cose divertenti che non farò mai più) abbia più o meno l’età di Jessica Pegula, la professionista che sta cercando di agganciare alla giostra della Wta[7], la fama di quello scritto sia più viva che mai: «È incredibile quanta gente, dopo tutto questo tempo, ancora mi parli di quell’articolo. Mi chiedono pareri, mi raccontano quanto sia stato importante per loro». È arrivato a riconoscere a quello scritto un ruolo addirittura promozionale: «Credo abbia invogliato parecchia gente che non conosceva questo sport a giocare a tennis». Probabilmente è vero. La ragione, sconosciuta per anni anche a Joyce, per cui un mondo di appassionati di tennis (o di lettura, o di entrambe le cose) si innamorò perdutamente del saggio di DFW è la più semplice che si possa immaginare: è uno scritto di una bellezza sfacciata. La qualità delle immagini che l’autore sceglie per descrivere movenze e tratti dei giocatori tra ammirazione, ironia e sarcasmo è strepitosa, senza precedenti nella letteratura tennistica: se Gianni Clerici è un impressionista e, con tre parole, sa tracciare profili inconfondibili di personaggi e vicende, Wallace è un postmodernista. Un innamorato del virtuosismo e dell’acrobazia. Talvolta è di una precisione maniacale, quasi isterica. I suoi testi, tra rendiconto e masticazione intellettuale, paragoni spassosi e notazioni ingegnose, sono pezzi unici. Le sue riflessioni sul senso del tennis fanno vergognare chi ci ha vissuto per anni senza porsi mai domande su ciò che Wallace osserva, sempre che abbia una sensibilità sufficiente per rendersene conto.

Secondo uno scrittore italiano, David Foster Wallace è uno snob, anzi, «uno stronzo implicito» (cioè inconsapevole di esserlo) perché «si pone fuori dal cerchio della civiltà di massa che piglia per il culo, andando a pubblicare il suo divertente ma cazzutissimo reportage su una rivista di massa[8]». Può anche darsi che il massacro intellettuale di una crociera occidentale possa aver spinto Wallace a prendere le distanze dalla disgustosa popolazione della nave con l’arma dello scherno: nel tennis, però, non è andata così. Se Wallace scrive che Andre Agassi, tennista dichiaratamente odiato[9] e in quei giorni nel pieno furore della sua summer of revenge[10] ha «il servizio di una ragazza rachitica» e «sposta il peso ripetutamente da un piede all’altro mentre si prepara per il lancio, come se avesse un disperato bisogno di pisciare», non lo fa per dileggio ma per rendere l’idea della personale maniacalità del gesto del professionista, riuscendoci benissimo. Thomas Enqvist «piega il corpo all’indietro mentre lancia, ritraendosi con una mossa da ballerino di limbo, quasi che per un momento la palla mandasse un pessimo odore», e chiunque abbia nella mente quella meccanica ha perfettamente presente quello scatto; Michael Chang «sembra composto di due persone diverse e cucito insieme grossolanamente: un tronco normale appollaiato su enormi gambe muscolose e completamente prive di peli, la testa a fungo, capelli neri come l’inchiostro e un’espressione di profonda e ostinata infelicità, la faccia più infelice che abbia mai visto al di fuori di un corso post-laurea di scrittura creativa». Così Krajicek, ancora in transito da sparatore a casaccio a campione, diventa «un olandese che porta un cappellino bianco con la visiera quando c’è il sole, si lancia verso la rete come se questa gli dovesse dei soldi e, in generale, gioca come una gru impazzita» e, fino al 1995, vi assicuro che questo era il più fedele ed efficace ritratto di due righe e mezza mai letto su Richard.

L’ironia di Wallace non è tesa a svilire, semmai sorregge la sua ammirazione («È mentre guardo allenarsi Hlasek che mi rendo conto, forse per la prima volta, di quanto sono bravi questi professionisti, perché anche se sta solo cazzeggiando, Hlasek è il tennista più impressionante che io abbia mai visto […] secondo i canoni distorti della tv, che è fissata con le finali del Grande Slam e i migliori cinque del mondo, Hlasek è semplicemente un giocatore di secondo piano»): per essere eccellenti in qualcosa, i tennisti devono aver sacrificato altri aspetti dello sviluppo della persona. Quando scrive che Joyce ha «l’evidente capacità di bloccare processi mentali che non gli risultino vantaggiosi», cioè di non arrabbiarsi per le mille micro e macro ingiustizie che un giocatore fortissimo ma anonimo deve quotidianamente subire nella trincea dell’Atp, non gli sta dando del sempliciotto: «Joyce riesce a evitare di arrabbiarsi per cose per cui mi pare decisamente difficile non perdere le staffe». Semmai, si fa beffe del circo del tennis («Il campo centrale è addobbato di rosso e nero cosicché da qualunque distanza ha l’aspetto di un funerale al Cremlino o di un bordello particolarmente ricercato») e del marketing pacchiano che circonda l’esposizione al pubblico di un gruppo di fenomeni da baraccone armati di racchetta.

Da uomo cresciuto, Michael Joyce, ossia «David Caruso, quello che faceva NYPD, ma più giovane e leggermente muscoloso» ha imparato a prendere il saggio per il verso giusto. Quel ragazzo non era andato al college «ed è stato solo marginalmente interessato alle materie di studio durante le superiori, cose che so perché me le ha dette lui da subito», ma Wallace non gli rimprovera l’ignoranza, anzi. Gli apre una nota lunga due pagine per spiegare, inizialmente, cosa significhi pagarsi l’attività ma finendo per raccontare la metamorfosi dell’apatico Joyce quando deve spiegare di sé e del tennis: «Lo ama: glielo leggi in faccia quando ne parla; normalmente, i suoi occhi hanno una specie di taglio asiatico a causa della leggere piega epicantica comune all’etnia irlandese, ma quando parla del tennis e della sua carriera gli occhi diventano rotondi, le pupille si dilatano e lo sguardo che hanno è uno sguardo innamorato… . Il tipo di amore che vedi negli occhi delle persone molto anziane che sono state felicemente sposate per un numero incredibile di anni: il tipo di amore la cui misura è data del suo prezzo, da ciò a cui uno ha rinunciato in suo nome».

A 42 anni, ha accettato il suo ruolo di primattore trasparente: «Anni dopo, quando uscì il libro che lo conteneva, ero più vecchio e più maturo. Ho cominciato a guardare a quella “cosa” in maniera differente: era un saggio stupefacente. Finalmente, riuscii a vedere il genio nella sua scrittura. Poi Wallace divenne una leggenda della narrativa e oggi è incredibile pensare di essere, in qualche maniera, legato per sempre a lui». Da lettore di Wallace, mi fa male pensare che non glielo potrà mai più dire; credo proprio che per lui sia lo stesso.

NOTE

  1. Il pezzo di Wallace che il NYT manterrà, presumo per sempre, su questa pagina (http://www.nytimes.com/2006/08/20/sports/playmagazine/20federer.html?pagewanted=all&_r=0). Non esistono statistiche di lettura, eppure credo di poter sostenere con sufficienti margini di sicurezza, anche per una questione idiomatica, che nessun altro autore tennistico abbia mai scritto qualcosa di tanto letto e dibattuto. Neanche Bud Collins nei suoi 40 anni di attività. Neanche Gianni Clerici, con cui scambiai un paio di battute su Wallace agli Us Open 2007: giudicava quell’articolo “molto deludente” e in tutta onestà mi venne da pensare che, per la prima e unica volta, stesse provando un sentimento di competizione non necessariamente vincente contro un essere vivente e non già sepolto al cimitero del Père-Lachaise.
  2. Tanto che Federer, tempo dopo, si disse molto sorpreso che, con soli venti minuti di dialogo diretto, Wallace fosse riuscito a estrapolare un articolo così bello; forse non gli era chiaro quanto fosse stata secondaria l’intervista in sé, rispetto all’osservazione del fenomeno Federer da spettatore cui Wallace si era dedicato.
  3. In Italia c’è un caso di (ex) tennista studioso eppure di successo, Andrea Gaudenzi, laureato in legge a Bologna nel pieno della carriera professionistica.
  4. Anche perché aggiungo un paio di domande sulla sua carriera («Credo sia stata buona, avrei potuto fare di meglio ma ho avuto alcuni infortuni gravi e, soprattutto, aver avuto mia madre malata di cancro negli ultimi anni della mia carriera mi ha ovviamente frenato. Ma non la cambierei mai: mi ha aiutato a diventare un coach di successo. Quel Wimbledon del 1995… ero giovane, era tutto nuovo per me. Ero fiducioso di poter battere Shuzo Matsuoka negli ottavi ma lui giocò alla grande. Ora, da coach, mi sento molto più saggio, e se potessi essere il coach di me stesso in quegli anni mi direi di non prendere così male le sconfitte. Mi direi anche di fare più attenzione all’allenamento fisico, che allora non era così importante come oggi ma, almeno, mi avrebbe risparmiato qualche infortunio. Ci sono coach ottimi che non sono stati giocatori professionisti, ma del resto si può lavorare a vari livelli: io credo di essere un buon coach al alto livello perché mi posso relazionare ai giocatori da ex giocatore, loro sanno che io ho vissuto le stesse cose che loro stanno affrontando e questo, credo, dà loro conforto»). Anche sul lavoro con Maria Sharapova e, più in generale, sul mestiere di assistente ai giocatori Joyce ha notizie interessanti per qualunque articolo di approfondimento sul mestiere del coach. Ma questo non è un articolo di approfondimento sul mestiere del coach.
  5. Gli unici ad avventurarsi nel genere del resoconto-dietro-le-quinte sono ormai i giornalisti dilettanti, peraltro sempre più numerosi in questi tempi di crisi strozzante dell’editoria, che frequentano i tornei a proprie spese in cambio di un accredito stampa fornito ormai anche da testate giornalistiche che hanno sdoganato la pratica dell’inviato che si paga le trasferte. Come bambini alle giostre, però, si lasciano trascinare dall’entusiasmo e travisano il senso del retroscena, ritenendo interessante raccontare, con quel comprensibile misto di ingenuità, insipienza e passione, l’elenco degli ingredienti dei panini consumati a fianco del tale coach, le fermate del viaggio in treno per raggiungere lo stadio, la pizza mangiata al tavolo con il tale tennista e i suoi famigli.
  6. Ne va, giustamente, molto fiero: « Con Maria (Sharapova) ho iniziato quando era piccola, non sono stato presentato come suo coach finché non ha avuto 17 anni ma la conoscevo da quando ne aveva nove. Ho passato molto tempo con lei, giocando con lei dai suoi 14 anni in poi. Ho imparato tanto e credo di aver avuto un ruolo nello sviluppare il suo gioco. Per me è facile allenare giocatori diversi perché so leggere le personalità piuttosto facilmente, credo sia possibile far raggiungere gli obiettivi in maniere diverse. Un bravo coach sa adattarsi ai suoi giocatori e trattarli in maniera da tirare fuori il meglio da loro. Ovviamente, con Maria e i giocatori di eccellenza ci sono tante distrazioni, per cui gestire il tempo diventa una parte importante del lavoro».
  7. Mentre scrivo, la Pegula è 258 al mondo e non riesce ancora a qualificarsi per gli Slam. Quest’anno ci è andata abbastanza vicino, a Parigi e a Wimbledon, ma è stata battuta al terzo turno.
  8. È Giuseppe Genna (Italia de profundis, minimum fax). Genna aggiunge una nota a chiarire che «per quanto resti convinto che, in Una cosa divertente che non farò mai più, DFW fosse uno stronzo implicito, è d’obbligo precisare che, nolente o volente, personaggio o scrittore, Giuseppe Genna è uno stronzo esplicito». Avendo avuto a che fare con lui, peraltro, non posso che trovarmi d’accordo.
  9. Chissà se, fosse vissuto abbastanza da leggere Open, DFW avrebbe cambiato idea al riguardo.
  10. Infuriato per le dichiarazioni di Boris Becker a Wimbledon 1995, che gli diede dello snob e confidò che dagli altri giocatori era tutt’altro che ben voluto, Agassi e il coach Brad Gilbert dichiararono guerra al tennis con la “estate della vendetta”. Agassi vinse tutto: Washington, Open del Canada, Cincinnati, guadagnò la finale agli Us Open proprio ai danni di Becker conquistando la 25esima vittoria consecutiva ma perse il match per il titolo contro Sampras. Probabilmente era stanco per il Super Saturday che gli aveva fatto terminare il match nella notte della vigilia della finale. In Open, Agassi ricorda con dolore quell’epilogo: «Tutto quel lavoro, quella rabbia, quelle vittorie, quegli allenamenti, le speranze e i sudori, tutto mi portò alla medesima, solita, odiosa sensazione di vuoto. Non importa quanto vinci: se non sei tu a vincere l’ultima partita, sei un perdente. E alla fine io perdo sempre, perché c’è sempre Pete. Come sempre, Pete». Quando Radio Deejay mi chiese di accompagnare la sua intervista con Linus e Nicola Savino, nel 2013, al mio racconto per il pubblico italiano della summer of revenge aggiunse un simpatico «Figlio di puttana» dedicato a Sweet Pete.

[Il Tennis Italiano ha ripreso nell’agosto 2019 questo mio scritto del 2015]

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.