La storia del Palpa

di | 23 Maggio 2018

Riano, provincia di Roma, un giorno del 1985. Dal telefono a gettoni del centro tecnico del Coni parte una chiamata: «Adriano, sono Paolo. Devi venire subito, qui c’è un under 16 che sta facendo un provino ma con gli altri non c’entra niente. Certo che dico sul serio. È mancino, la palla gli esce che è una meraviglia. Devi vederlo». Paolo era Bertolucci. Adriano era Panatta, allora direttore tecnico della Fit e pure febbricitante, ma andò ugualmente a vedere quel ragazzino che al suo circolo, a San Benedetto del Tronto, si allenava col maestro Ferrante Rocchi (ex 153 ATP) e tutti lo chiamavano Virgola, perché era magrissimo. Panatta arrivò e restò folgorato. Lo convocò in segreteria: «Ragazzino, come ti chiami? Noi vogliamo farti entrare nel gruppo. Sì, in nazionale: pensiamo a tutto noi, allenamenti, sistemazione, pasti. Dormirai con gli altri al residence Parioli in città, al mattino verrà il minibus a caricarvi». «Salve, io sono Roberto. E in questo lager non ci voglio stare un giorno di più, altro che venirci a vivere».

Qui finisce la storia, meglio, una delle storie al limite del concepibile di Roberto Palpacelli, un Enea apocrifo del tennis, un eroe mitologico del quale nessuno, però, ha mai scritto nulla. Al suo nome è associata una quantità di leggende metropolitane abnorme, per un giocatore che ha un solo dato ufficiale: il 1.355, cioè un punto ATP, nel 1999. Una messe di racconti e aneddotica tramandati di bocca in bocca, che la conoscenza collettiva di Internet non solo non ha chiarito, anzi, ha contribuito a dilatare fino a sconfinare nell’imponderabile: «Ha battuto tre volte Boris Becker», «A trent’anni, con la sigaretta in bocca, ha dato 6-1 6-1 a Volandri», «Ha vinto una partita in serie B tenendo in mano una bottiglia di birra», «Era il più forte di tutti». L’ultima è la frase più ricorrente, sul suo conto: era il più forte di tutti. A più di trent’anni dall’episodio di Riano, Paolo Bertolucci conferma: «Palpacelli era davvero speciale. Eravamo rimasti colpiti dal suo talento, ma già al raduno si vedeva che era un ribelle: non gli stava bene niente, si lamentava in continuazione. Capita così coi talenti, uno come Fognini è più difficile da governare di un Seppi, no? Solo che non ne volle proprio sapere: gli consigliammo di tornarsene a casa, pensarci bene e richiamarci. Naturalmente, quella telefonata non arrivò mai. Mi è dispiaciuto molto, perché era un pezzo raro; sembrava la accarezzasse, la palla, poi partivano fucilate. Stilisticamente era perfetto. Da lì, credo di averlo rivisto una volta sola, tanti anni dopo. Sapevo che stava passando dei problemi. Eravamo a Verona, ai campionati italiani, mattina presto, al bar: io presi un caffè, lui un Campari». Roberto Palpacelli, che a 48 anni ha accettato per la prima volta di raccontarsi dopo un corteggiamento piuttosto complesso, arriva a Giulianova in treno. Zainetto, stivaletti sportivi, capello corto, orecchino. «Se c’era un fotografo o un cameraman scappavo» esordisce, strizzando una Marlboro tra i denti. «Riano? Certo che lo ricordo. Mi dissero che mi sarei allenato con Riccardo Piatti che aveva il gruppo di Furlan, Caratti, Mordegan, Nargiso e Brandi, tutti ragazzi del ’70 come me. D’istinto risposi di no: mi proponevano tennis, pranzo, atletica; la sera, autobus e stanzoni. Ma io avevo altre cose per la testa: a quindici anni fumavo già le canne. L’anno dopo feci il primo tiro, intendo di eroina, e il problema fu che mi piacque».

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