Taylor Townsend e l’arte perduta del serve&volley

di | 18 Novembre 2019

Quando l’ultimo passante di rovescio di quell’altra si era spento neanche a mezza rete, Taylor Townsend aveva appena terminato (con successo) la sua 106esima discesa a rete del match. Voleva dire che più di un punto su due aveva testimoniato una visita laddove, ormai, si va solo a stringere la mano all’avversario. Fatto forse più significativo, col punteggio di 2-6 6-3 7-6(4), cancellando un match point lungo il cammino – manco a dirlo, con un serve&volley – Townsend aveva appena battuto la prima top 10 in carriera. Di più: una recente numero uno del mondo, che valeva ampiamente quella posizione nell’anarchico tennis femminile di questi tempi; non una vecchia regina frusta, ma Simona Halep.

In cabina a Eurosport Italia, quel giorno di fine agosto, c’era più gente del dovuto. I due commentatori, due ospiti extra – uno è colui che vi scrive – e, dietro i vetri, altri tre o quattro della squadra del tennis, col naso appiccicato al vetro. Tutti, o quasi, a fare la ola.

Il fatto è che non si può non desiderare vedere Taylor Townsend in campo. Non perché sia (stata) una vittima della disumanità sportiva, né per la simpatia riconosciuta generalmente agli underdog, gli sfavoriti. Ma perché il suo gioco conquista e riconcilia con la bellezza del nostro sport, è uno squarcio che ci fa affacciare sul lungo film del passato, quando i gesti erano bianchi e la grazia non era stata vinta, in una stupida guerra pseudoevolutiva, dal bastone. Taylor gioca a tennis come si è sempre insegnato, provocando il gioco e non assecondando lo scambio; finché si è deciso che chiunque indossasse una gonnella e impugnasse un racchetta dovesse a) Tirare rigorosamente il rovescio a due mani b) Colpire esclusivamente da fondocampo, il più forte possibile c) Non saper tirare, neanche vagamente o con effetti ridicoli, un rovescio slice d) Mai permettersi di scendere a rete, se non per schiaffeggiare di volo una palla facile e) Rendersi ridicolo se costretto a giocare la volée. La ricetta, peraltro, è stata seguìta con una diabolica costanza anche nel comparto maschile.

Townsend no. «Fin da bambina adoravo scendere a rete. Era una cosa del tutto istintiva, per me. Per tanti anni ho pure smesso di fare serve&volley, ma il mio coach è stata la prima persona ad avermi insegnato cosa fare in campo: è bello, avere al tuo fianco una persona che conosce il tuo gioco e sa cosa funziona meglio per te. Mi sono ritrovata». Parla così, questa ragazza che ha sconfessato decenni di monocultura tennistica, di Donald Young Sr., il papà della omonima stellina implosa, ovvero la sua guida dal 2015; non cita né Kamau Murray, con cui crebbe, né Zina Garrison, che l’ha avuta in cura per anni: colpevole, a quanto pare, di averla forzata a un tennis inchiodato lontano dal net, nonostante Zina, finalista a Wimbledon ’90, fosse stata un’attaccante pura. Nomina solo Young, come «l’unico che mi abbia davvero insegnato come giocare a tennis». Sia gloria a lui, allora. C’è poi un mentore inconsapevole, un’altra ex numero uno del mondo, da 18 Slam, la più grande giocatrice di serve&volley di sempre, nella storia di TT, così ricca di discese a rete e saliscendi nel ranking: «Ah sì, certo, è Martina Navratilova. Io ero un po’ troppo giovane per vederla giocare dal vivo, ma fin da bambina andavo sul web a cercare le sue partite. Amavo la sua energia, il suo carisma in campo. Abbiamo personalità simili. Non abbiamo mai parlato specificamente del fatto che io giochi un po’ come lei, però ci siamo scambiate qualche battuta: posso solo dire che vorrei poterlo fare più spesso, e chiederle dei consigli». Entrambe mancine, affettano il servizio slice a meraviglia; forse Taylor esegue un po’ meglio il kick di quanto riuscisse alla regina Navratilova ma il tocco a rete è della stessa scuderia. Alta, bassa, incrociata stretta, profonda, col taglio esterno, non c’è volata che Taylor non sappia eseguire con grazia ed efficacia, anche sotto pressione. Le altre sono stranite, spesso non sanno cosa fare, abituate al ritmo tic-toc forsennato ma costante del palleggio da dietro.

È novembre e Townsend sta smaltendo l’ubriacatura Us Open: dalla sconfitta negli ottavi di finale contro Bianca Andreescu è convalescente e non ha più giocato, eppure l’onda lunga della sua impresa a Flushing Meadows non si è esaurita. Finora è mancata la beatificazione del risultato di altissimo ceto anche se, a 23 anni, Taylor Townsend è già alla terza carriera. Nel 2012, vinse gli Australian Open juniores in singolare e in doppio; poco dopo, superò Ashleigh Barty e diventò la numero uno del mondo juniores. Non fu sufficiente per convincere la sua federazione a farle giocare gli Us Open: anzi, osarono negarle la wild card per il tabellone principale e le consigliarono pure di ritirarsi dal torneo under 18, perché sovrappeso e a pericolo infortunio o malore, per una presunta anemia. Pat McEnroe, per l’occasione autonominatosi giudice, padre padrone, cappellano e compilatore di tabelloni, sostenne che fosse stata una scelta pensata per il suo bene. «Quella storia è andata», dice lei adesso. «Ma con la Usta non è che siano cambiate le cose, dopo l’ultimo torneo»; e non è cosa buona, perché dovrebbero chiederle pubblicamente scusa e sostenerla fino alla fine della carriera: giacché le magie contro Halep a New York se le è dovute guadagnare passando le qualificazioni.

Nel 2015, TT ottenne il miglior risultato Slam, il terzo turno a Parigi, e aveva appena compiuto 19 anni. Toccò le prime cento, poi crollò sotto il peso di un fisico ingombrante, portato con orgoglio ma anche con la debolezza di una teenager. Prima gli infortuni, poi una crisi personale alimentata dall’odio veicolato dai social network le avevano fatto perdere tutto: classifica (300 Wta), buonumore, volèe e voglia. Dal quasi zero è ripartita, per il rientro con il best ranking  (61 Wta, luglio 2018) e la favola Slam in quello stesso posto che l’aveva rifiutata, sette anni fa. Ora il mondo si è accorto di lei, ambasciatrice involontaria del bel tennis: «Se mi sento un esempio? In un certo modo sì, cerco di esserlo per le ragazze più giovani. Credo di aver dimostrato che ciascuno di noi è diverso e che ciascuno va bene così come è». Allo stesso tempo, ci tiene a non rendere le cose più facili di quanto non siano: per battere Halep, dopo una serie di bastonate rimediate contro la rumena, e per tornare a sfidare le grandi, serve una qualità di gioco non accessibile a tutti: «Per giocare come faccio io, e farlo con costanza, devi essere un certo tipo di persona. È molto difficile eseguire una tattica di gioco aggressiva. Ed è anche questa la ragione per cui non è che necessariamente scenda a rete su tutti i punti. Oggi le donne colpiscono davvero forte e sono fortissime fisicamente, quindi bisogna essere brillanti nell’applicare la strategia dell’attacco. Mettiamola così: il serve&volley non è per tutti. Ognuno deve assecondare il suo modo di essere in campo. Però ecco, se là fuori c’è un giovane che vuole provare a farlo, gli direi questo: di non avere paura, e di provarci».

A noi basta che continui a provarci lei, e a farci sobbalzare dalla seggiola.

[Pubblicato su Tennis Italiano di ottobre 2019]

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