www.clarence.(vaffa).com

di | 17 Gennaio 2021
È bastato che un amico chiedesse «ma tu lo hai visto, SanPa?» perché una vaga sensazione di fastidio fiorisse, così, come quei mal di testa che ti pigliano all’improvviso, a tutta prima senza un perché.
Invece il perché c’è eccome, e non ha a che fare con – improbabili, visti i tempi – postumi della ciucca ma con Clarence. Sì, Clarence: quel Clarence, l’angelo del film di Frank Capra La vita è meravigliosa, opera di cui mi era stata prontamente fornita copia in Vhs, insieme al Cd piratato del software HomeSite e a qualche appunto con i rudimenti del linguaggio Html. Un po’ come faceva Vorilhon con il kit destinato ai nuovi adepti raeliani – tunica bianca, manuale e medaglione: non puoi lavorarci, a Clarence, se non sai interpretare al volo
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(Sono passati vent’anni, ma la so ancora: inserisce un’immagine di nome foto.jpg allineata a sinistra e senza bordino e, se ci clicchi sopra, ti porta al sito ciao.it aprendo una nuova finestra del browser. Tiè).
Soprattutto, non puoi non conoscere quel film. Apprezzare quel film. Idolatrare quel film. Per carità: non voglio scassare le gonadi con la storia salvifica dell’angelo che convince il buon George a desistere dal proposito anticonservativo di lanciarsi in un fiume in piena, al culmine di una serie notevolissima di sfighe, né ragionare sulle stringhe di un linguaggio di programmazione. Vorrei raccontare, o meglio, forse è andato in prescrizione nel mio sistema linfatico e quindi è arrivato il momento di raccontare, il mio demonio. Perché tutti ne abbiamo uno, e il mio è lui. Clarence.
www, punto clarence, punto com. Il mio primo lavoro.
Erano crollate le Torri gemelle. La laurea l’avevo presa, fresca di stampa, e buttata in uno scatolone. Del numero indefinito di mail spedite in quel settembre del 2001 «all’attenzione di», l’unica che sortì risposta era stata quella mandata a Guido Fossati, caporedattore nonché scrivente unico di sport sul portale www.clarence.com. Non mi capacitavo del fatto che costui potesse avere trovato interessante il curriculum di un aspirante pubblicista di provincia, titolare di editoriali naìf su un settimanale locale dalle parti di Cuneo e di improbabili inchieste sulla rendita degli immobili nell’area urbana del comune di Alba, tanto da proporre un incontro. Difatti, si era sbagliato.
Mi sentivo come Andrea Straniero in Santa Maradona – film che, peraltro, trovavo molto più vicino al mio livello intellettivo che non quell’altro – quando in sede di colloquio rispondeva che la sua più grande aspirazione, il maggior pregio e il più grande difetto erano «la sincerità», e che il reddito annuo della sua famiglia era, pure quello, «la sincerità». Volevo essere lì, ma anche no. Volevo fare il giornalista non locale, però boh. Mi piaceva l’idea ma, nella sostanza, avvertivo disagio. Tanto. Credevo di non potermelo permettere, di uscire dal mio orticello in culo al mondo. Ero bravo nel mio campionato, ma quello era un altro sport. Forse era meglio restare a scrivere della rotonda di San Cassiano e del gattino salvato dai pompieri, semmai tenendomi su con lo Xanax.
Incredibilmente, pur facendo di tutto per farmi scartare, compreso lo sfoggio di un fastidioso accento pedemontano compreso tra Piero Fassino e Macario, venni preso. Stagista. Contratto di tre mesi, cinquecentomila lire con accesso al corso di inglese aziendale, una volta alla settimana. Come ulteriore bonus, avevo trovato assolutamente straordinario che la macchinetta delle bevande fosse gratuita: col senno di poi, avrei fatto meglio a non palesare tanto entusiasmo, alimentando inconsapevolmente la fama da Monsù Travet.
Come raccontavo agli amici a casa, che conoscevano Clarence per la sezione dedicata alle gnocche (si chiamava Big, stava per Beautiful Internet Girls e, santa pace, letto vent’anni dopo è sufficientemente grottesco per dare conto del tempo passato) il mio lavoro era arrivarci, al lavoro. Sveglia alpina, bottiglia d’acqua calda per sghiacciare la serratura, in auto fino ad Asti, treno delle 6:45, arrivo a Milano Centrale alle 8:33. Metro, fermata Duomo, a piedi fino al 64 di via Torino. Prendevo il portone a sinistra prima della galleria del cinema Eliseo. Passavo l’Egizia Beauty Center, il non meglio definito Space Trip – Rave Shop, altre due rampe et voilà, arrivato. Lesso e trafelato, ma c’ero. Salutavo Silvia, la segretaria, e attraversavo lo stanzone.
Clarence era un posto, come dire, figo. Solo che io non lo ero. Anzi. Milano mi intimidiva. Via Torino mi atterriva. Mentre camminavo col naso all’insù, il tram rischiava di schiacciarmi, come quello del tribunale con Paolo Brosio durante Tangentopoli. Mi sentivo un idiota. Di fatto, ero un idiota: mi perdevo dappertutto. Era bastato che chiudessero la fermata solita, un mattino, perché mi ritrovassi a riemergere in superficie a quella successiva – Missori, linea gialla – sbigottito e smarrito. Mi ero imbucato da un tabaccaio per comprare una mappa che cercavo angosciosamente di interpretare. Via Torino stava nel quadrato C3. Per tornare indietro di un giro di pista, credo di averci impiegato un’oretta tonda. Ogni mia sicurezza casalinga si sgretolava alla vista del cartello blu in stazione. Non avevo ancora imparato che, sulle scale mobili, si doveva tenere la destra e che la gente di Milano mediamente era in ritardo o si atteggiava come lo fosse, parlava molto al cellulare e si svegliava incazzosa. Al primo vaffanculo di uno sconosciuto cui non sapevo cosa avessi fatto, già mi sentivo un disadattato. Figuriamoci quando arrivavo al cospetto di quel cartonato che troneggiava dietro la mia scrivania: era Clarence, l’angelo con le ali, ed era più grosso di me. “A wwworld apart” (marchio registrato, quindi una cosa seria), si leggeva sotto il faccione. Accendevo il computer e una scomoda sensazione di inadeguatezza mi irrigidiva le falangi. Facevo il login con le chiavi di accesso generiche del collaboratore: non ebbi mai una mail cometichiami@clarence.com, a testimonianza dello status di immeritevole. Non potevo ancora saperlo ma quel senso di plateale inidoneità non mi avrebbe abbandonato, se non dopo il tempo di una condanna per omicidio volontario scontata senza i benefici della Gozzini. Come un corvo menasfiga imbalsamato che rimane lì, appoggiato alla spalla, a guardarti di sbieco. Come quelle mononucleosi bastarde che restano in circolo per la vita, tu sei guarito ma in realtà no, tiri avanti con lo stigma di quello che ti sei buscato, un pochetto anemico, un valore y che non torna mai del tutto a posto, e basta un colpo d’aria che ti riammali. Difatti, mi è sufficiente scrivere queste quattro cose citando Clarence per tornare a guardarmi i polpastrelli mentre digito, a pensare che devo fare bella figura con chi legge, a spremermi per scovare una parola erudita da piazzare a effetto. Tutte menate postadolescenziali sepolte da vent’anni, ma con l’asterisco. L’asterisco è Clarence.
Mia madre, ansiosa e inappetente, mi preparava i panini, come era abituata a fare negli anni Ottanta per le gite degli scout in valle Maira. Temeva deperissi o, magari, faceva Milano più lontana e più fredda del lecito. Sicché non me ne ficcava nello zaino meno di sei. In pausa pranzo, gli altri si spostavano in gregge in posti esotici come La Hora Feliz, a mangiare piatti dai nomi intimidenti. Qualcuno restava in ufficio e osava ordinare il misconosciuto sushi e lo mangiava con le bacchette, pratica che trovavo curiosa al pari del gergo, «senza wasabi grazie, una barchetta di nigiri e sei futomaki ebiten». Provavo ammirazione per chiunque osasse telefonare, capisse il significato di quei nomi e si facesse portare con noncuranza un pasto a domicilio, ché ovviamente ad Alba non si faceva, né esisteva la cucina giapponese. Per conto mio, azzannavo pane e prosciutto avvolto nella stagnola sbriciolando sulla tastiera e contribuendo in maniera sostanziale a passare per quello che ero: un contadinotto imbelle, figlio di un mondo arretrato, catapultato per un qualche cortocircuito spaziotemporale nel bel mezzo della civiltà avanzata. Il resto, se mai ce ne fosse stato bisogno, provvedeva a farlo la pettinatura. Un caschetto che supponevo potesse evocare Paul McCartney per poi sapere, ma solo a cose fatte, che pure il grafico russo di Clarence, il mansueto Nikolai, soleva fare riferimento a me come «kampagna» perché, evidentemente, più che il bassista dei Beatles gli ricordavo qualche parente disperso in un podere di Novgorod.
Di fama conoscevo soltanto Gufo, alias Guido Fossati, il più schivo della banda. Para-quarantenne, perciò vecchiotto per i canoni della new economy di allora, laurea in lettere infruttuosa e una passione smodata per l’alpinismo, Gufo era finito a Clarence tra i primi. Si occupava della sezione sport e io, che m’ero presentato come appassionato di tennis, mentendo sulle competenze calcistiche, ero lì per dargli una mano. La parte più divertente era la rassegna stampa del lunedì: scandagliavamo i quotidiani alla ricerca di minchiate assortite, da convogliare in una rubrica stile Gialappa’s.
Il direttore, Stefano Porro, a neanche trent’anni zompava – ai miei occhi di Pozzetto fagocitato dalla metropoli – su per la scala del successo a ritmi forsennati. Aveva già pubblicato con Mondadori, Bruno Vespa l’aveva invitato a Porta a porta a parlare di quell’oggetto sconosciuto che era il web: tanto mi bastava per bollinare una carriera come strepitosa. Vestiva urbano, montava occhiali rettangolari da pensatore contemporaneo su una faccia tutta spigoli. Il suo tappetino del mouse, siccome Clarence era anche un po’ cazzone, era quello della pubblicità dell’Esselunga che ricalcava nomi abbinati a frutti e verdure: c’erano John Lemon, Pompelmo Tell e, appunto, Porro Seduto. Quando sorrideva, trasudava consapevolezza e faceva lunghissime telefonate – che a me parevano sempre molto importanti – con l’auricolare col filo.
Un altro redattore, Alberto, era uno serio. Molto serio. Troppo. Non rideva mai. Gentile e cortese con tutti, arrivava in bicicletta da Pioltello, usava le mollette per tenersi l’orlo dei pantaloni mentre pedalava e vestiva esclusivamente capi color bigio. Nonostante il timbro gutturale, più che parlare sussurrava e, pure quando la regola aurea imponeva di gridare «Posso aprire gli strilliiiiiii?» (era un documento che si poteva modificare solo uno alla volta, pena un gran casino in homepage), lui riusciva a farlo sottovoce.
Un altro piombava in redazione con l’ushanka, conciato come un reduce dell’assedio di Stalingrado. Si firmava, in sfregio all’understatement, come quel dittatore cinese e si proclamava fieramente comunista oltranzista. Usava un linguaggio impolverato, lotta di classe, subalternità, salario minimo garantito, masse operaie. Si prendeva moltissimo sul serio e pareva più fuori posto di me. Quasi. A differenza mia, difatti, non arrotondava le “o”; su tutto, avevo registrato che gli altri lo ritenevano degno o, almeno, così davano a vedere. Era uno di loro. Di lui, ricordo la maniera odiosa di rispondere alle telefonate: «Eeeeeeccolo! Buongiooooooornoooooo». Con le “o” chiuse, però. Tra i pochi cui non guardavo con lo scrupolo dovuto a una stirpe superiore c’era Jonathan. Mi piaceva perché aveva pure lui una cadenza allogena (era toscano del sud) e sembrava, fatto più unico che raro, non guardare alla mia sedia come fosse vuota, anche quando ci avevo posato su il didietro.
Poi c’era Genna. Giuseppe Genna era la mente dotta e genialoide di Clarence. Cui mancava, per sua esplicita ammissione, il corpo. Con spalle a collo di bordolese, l’incarnato autoptico – forse da imputare al numero di sigarette e/o alla nulla esposizione all’aria aperta – il timbro vocale di un tono troppo squillante per restituire una voce stentorea, pareva più che altro uno che parlava (tanto, sempre, a voce altissima) dopo aver respirato l’elio. Rideva fragorosamente e soleva lamentarsi – pacioccandola con disgusto – della sua precoce pappagorgia. Arrivava in redazione telefonando, o parlando con qualcuno, o con se stesso. Citava ossessivamente Calvairate e non avevo la più pallida idea di chi o cosa fosse. Ero arrivato da poco quando era uscita una sua intervista sulle pagine milanesi del Corriere, in cui raccontava di consumi smodati di Lagavulin per lenire lo spleen. Pratica che – in sua assenza – in redazione era stata messa in dubbio con un termine («fuffa») a me rigorosamente ignoto.
Con il coso portatile, raramente muto, aveva instaurato un rapporto catulliano: talora pareva non poterne prescindere. Altre, dopo il primo squillo, apriva il cassetto alla destra della postazione, lo sbatteva giù e richiudeva, indignato, recuperando la sua inimitabile posizione scrittoria mentre il coso trillava indefesso. Martellava i tasti appollaiato sulla punta dello schienale, i piedi appoggiati alla seduta, proteso sulla tastiera a 45 gradi, la Marlboro rossa pendula. Non glielo dissi mai ma, nel pieno della mia fugace esaltazione, lo avevo pensato come il nuovo Fenoglio, quello della generazione www, pronto a regalarci un’altra Questione privata.
Una volta, non so perché, mi regalò la prima versione di Assalto a un tempo devastato e vile, che provai inutilmente a barattare per un panino speck e brie. Lo accettai ringraziando e millantando la conoscenza di tutti i titoli della collana Pequod. Già il titolo mi intimidiva, ma lo lessi. Lo trovai a un tempo brillante e acerbo, pagine intense e altre pallosissime. Manco a dirlo, il parere me lo tenni per me. Il Genna del 2000 era padrone di un talento per la scrittura da fuoriserie, montato con lo spago sul telaio di un’utilitaria scalcagnata. Nel suo canale, cultura e spettacolo, riversava, senza filtro alla sua uàllera ispirazionale, tutta la geniale scompostezza e la truce idiozia di pensieri brillantissimi e cascami letterari. Avrei anche voluto dirglielo, ma mi ero giocato tutte le possibilità di interloquire quando, davanti alla macchinetta del caffè (gratis), gli dissi che non ci trovavo nulla di male in quelli che leggevano i libri di Severgnini per alleggerire un po’, e che lo facevo pure io. Non credo potrò dimenticare il suo sguardo che, da bovino, si assottigliò in un’occhiata che sprizzava un misto di disgusto, sconcerto, schifo e commiserazione. Era una radiazione intellettuale: non provarci mai più. Non ci provai mai più, a parlargli. Per mia fortuna non arrivai a confessargli che, dalle mie parti, quelli con un cognome come il suo venivano ancora guardati a priori con sospetto: peggio, molto peggio che i terùn di Bossi. È pure vero che la sua opinione sul mio conto non penso fosse ulteriormente emendabile in peggio.
Genna nutriva con vanto un amore esacerbante per Gilberto Squizzato, regista sconosciuto ai più – compresa la maggioranza assoluta di una redazione pur popolata da frange di intellettuali – cui soleva accostare imminenti megaproduzioni, docu-fiction, kolossal e serie tivù. Con la stessa facilità con cui assicurava i lettori che «Squizzato fa con la tv quello che Tarkovskij ha fatto con il cinema e Hopper con la pittura», di Umberto Eco scriveva che «nel caso di Baudolino, ciò che sorprende sono proprio le caratteristiche interne del libro a fronte del debordante successo annunciato. L’incipit scoraggerebbe chiunque. È modulato sulla lingua preitaliana di “Sao ke kelle terre per kelli fini”». Durante una presentazione del libro, si bullava di essersi alzato per domandargli: «Baudolino: perché?» ed Eco gli aveva risposto: «Perché sì!» Due righe sotto, citava la Palombelli (Barbara Palombelli, la moglie di Rutelli) e magnificava «la straordinaria, barocca, fantasmagorica narrazione di Alberto Bevilacqua, che resta una delle acquisizioni per sempre della letteratura italiana». Cose così. Allora, ero convinto che una minchiata scritta bene non fosse più tale. A un certo punto, ricordo che era andato in fissa con il lounge, una specie di manifesto post-trash dai contorni indefinibili (http://web.archive.org/…/cultura-spettacolo/edicolatrash/).
Avendo saputo della mia passione sportiva, una volta era tornato ad accorgersi della mia esistenza in vita e mi aveva sorpreso, chiedendomi a bruciapelo chi fosse il tennista più lounge. Non ho idea della ragione, ma gli avevo risposto con sicumera «James Blake». Io non sapevo cosa fosse il lounge, lui non sapeva chi fosse James Blake e rimanemmo d’accordo così. Un’altra volta, mi aveva bonariamente diffidato dallo scrivere su Clarence del caso di Emanuela Orlandi, perché era un argomento della sua sezione. Come dire: occupati del rigore della Juve, dai.
In definitiva, per me era troppo. Avevo già il mio treno, la regione Piemonte, l’inadeguatezza, i palazzi che si spostavano apposta per farmi perdere l’orientamento, gli attacchi dei pezzi che non mordevano, il barbiere latitante, l’inflessione al gianduja. Non ero pronto. Anzi, non ero capace. Bastava che una tizia del marketing con gli occhi da cerbiatto scendesse dal piano di sopra avvertendomi che avrebbe «taggato il mio pezzo per conteggiare gli accessi» e di «fleggare» qualcosa per farmi precipitare nella più nera delle disperazioni: sostanzialmente, perché non avevo capito una mazza di quello che diceva, ed era senz’altro colpa mia. Pure lei, che portava jeans strizzatissimi e faceva spesso «ape», altro termine misterioso, doveva essere esponente di una razza dall’intelligenza superiore.
Accanto a me, scriveva un ragazzo che non si chiamava Stefano, però amava usare le generalità dell’autore di La metà oscura. Bel ragazzo, ma davvero: alto, biondo, occhi chiari, mascella volitiva, pedigree fumoso e fascinoso, prosa accattivante e visionaria. Da qualche parte mi ero segnato una sua frase che, pressappoco, suonava così: «Fate mancare per tre giorni la corrente a una grande città, troverete la gente appesa ai lampioni». Un tipo interessante. Anche criminologo, mi diceva. Vestiva col chiodo, i fuseaux neri e gli anfibi. Un giorno mi disse che aveva creato una comunità online, dal nome di Bdsm qualcosa, che godeva di un ottimo riscontro e che, se volevo, potevo anche partecipare di persona per vedere come funzionava. («Ah, d’accordo», credo di avergli risposto in quel frangente, ché sicuramente non avevo idea di cosa significasse l’acronimo e, probabilmente, andò bene così). Verso la fine della mia, chiamiamola così, esperienza, stava litigando con la proprietà e, suppongo per farsi beffe di loro, spediva certificati medici bizzarri: in uno di questi, letto davanti a tutti in redazione da non ricordo chi, forse Neri, lamentava fastidiosi pruriti in zone delicate, che gli impedivano di presentarsi al lavoro.
I proprietari di Clarence, ecco, ci sono arrivato. Erano Roberto Grassilli, un vignettista, e Gianluca Neri. Quello di SanPa. Clarence era nato, vado di reminiscenze da adepto respinto che qualcosina però aveva studiato, come servizio di chat legato a una società di messaggistica virtuale. Più che altro, i due avevano intuito prima di altri le potenzialità della Rete, e vivevano a Milano. Quindi erano già, come dire, imparati. Ex collaboratori del mitico settimanale satirico Cuore, non avevano rinunciato all’idea di continuare a vivere di strip satiriche, articoletti pungenti e altre cose simpatiche che si potevano fare solo online. Tanto più quando, con il gonfiarsi della bolla speculativa del web, erano stati caricati di soldi da capitalisti di ventura. Compresi dei tizi svedesi dei quali, al mio arrivo, restavano solo tracce in materiale promozionale di un motore di ricerca estinto, Spray.it. Neri, che in quei cinque mesi vidi sì e no due volte, mi era stato raccontato come un genio della programmazione che conversava brillantemente in html, fumava troppo e viveva sul fuso di Wellington. Su Clarence, Genna ne aveva parlato come di un «tarro con un golf color topo, l’orecchino pseudomosessuale, il sorriso di chi è contento perché sta facendo delle cose su pc». Corrispondeva. Altro non sapevo, se non che lavorava di notte: particolare che non sfuggì neppure a me, specie quando ricevetti una mail di rimbrotto destinata formalmente alla redazione ma chiaramente rivolta all’unico che si era macchiato del reato di leso Pantone per avere usato, nell’impaginare una tabella, un colore fuori standard. Le sue comunicazioni testimoniavano orari rigorosamente compresi tra le 2 e le 6 del mattino. L’unica volta in cui mi rivolsi a lui e non alla sua mail, in un impeto di coraggio, provai a capire se avesse letto qualcosa della mia produzione. Rammento la sorpresa nel suo sguardo. Che cazzo di domanda. E questo, poi, chi sarebbe? Con gli occhi a punto interrogativo, buttò lì qualcosa del tipo: «Mah, guarda, gli stagisti solitamente…» «Ci sfuggono», aveva completato Grassilli. Capìto.
La popolarità di Clarence, in quei tempi a cavallo tra vecchio e nuovo mondo, era esplosa. Le sue tirate comicheggianti, un cazzeggio intellettuale di livello nonostante la tensione al parossismo del suo responsabile, le vignette, i titoli alla Clarence («Vedi Ronaldo e poi muori», uscì alla scomparsa del grande Peppino Prisco), quantità industriali di immagini di fotomodelle scollacciate e una sana libertà di satira che quella Rete selvaggia e sconosciuta ai dinosauri dell’informazione poteva garantire, si fecero strumenti di un caso editoriale e di una communityrigonfia di gente collegata da tutta Italia. Un milione e mezzo di utenti unici al mese, nel 2001. Io ero lo stagista, ma c’ero. A parte Gufo, e un redattore che si occupava di statistiche con cui condividevo l’apprezzamento dei Marlene Kuntz («Ma lo sai che sono anche loro di Cuneo?» gli avevo fatto notare immancabilmente, per non venir meno allo spirito da Pro loco) e che aveva fatto presente come il canale sport fosse cresciuto del 30% dal mio arrivo («Ma non so se dipende da te», aveva subito tenuto a precisare durante la riunione), nessuno si era accorto del mio passaggio. E se sì, non esattamente con esiti da sballo. Tutti i miei timidi tentativi di mostrare la presenza di un cervello sotto il caschetto crollavano miseramente, quando non mi si ritorcevano contro. Un giorno, sorpresomi ad ascoltare Balasso che impersonava il professor Anatoli Balash, Genna mi fulminò: «Questa roba qui dovrebbe far ridere?» Mi sentii come quando perculavo qualche amico del calcetto perché sosteneva che Fabio Volo fosse lo scrittore più talentuoso mai letto. Solo che, in quella scena fuori sede, lo sfigato ero diventato io. Avevo anche costretto la mia famiglia a guardare un’edizione del Tg3 della Lombardia in cui si presentava il Clarendario, una cosa che probabilmente aveva un po’ di culi e tette in mezzo alle date: al secondo 45 del servizio, dietro un monitor, si scorgeva fugacemente una spalla, mezzo caschetto, poi l’inquadratura tornava su Porro. Quel mezzo uomo ero io. E ne ero mezzo fiero, mezzo disperatamente vergognato.
Dopo qualche mese, Clarence fu invitata alla convention di Dada, la società fiorentina che si era comprata il portale per una quindicina di milioni di euro. Ovviamente, non ero parte della spedizione. Solo che, all’ultimo, un loro informatico si ammalò, quindi partii con loro. A patto di dichiararmi Andrea Boriani per tutto il weekend: avevano deciso che non meritassi una telefonata per far cambiare il nome sul badge.
La cosa era stata organizzata in una villa rinascimentale sopra Firenze ed era stata intitolata 2002, l’anno palindromo: dal free al fee. Traduzione: tutto quello che finora abbiamo regalato agli utenti, d’ora in poi lo faremo pagare e la gente sgancerà. Di quella trasferta ricordo che la segretaria, Silvia, gridava «Abbonooooo!» al supercapo di Dada, un top manager di nome Mortillaro, mentre dal palco costui assicurava che i destini di Clarence e le sorti dell’azienda tutta sarebbero stati magnifici e progressivi (errore: le azioni Dada crollarono da un picco superiore ai 31 euro a un minimo di 7,64. Nel 2002, chiusero a 5,20. Neanche un anno dopo, sostanzialmente, Clarence era già defunto). Di un altro, il fondatore di Dada, Barberis, rammento gli occhi a mezz’asta e, nel mio rimuginare solingo, l’idea che non sarei riuscito a spiegare a mio padre che lavoro facesse di preciso, né per quale ragione potesse guadagnare tutti quei soldi.
La sera, assistetti alla trasfigurazione di una ragazza del marketing – non quella che taggava, un’altra – che, a suo dire, ogni volta che il tasso alcolico superava il tale segno veniva posseduta dallo spirito di Sandra Milo. Siccome se c’era da bere partivo con l’indiscusso vantaggio del Dna delle Langhe, ho qualche memoria del fatto che, forse, passai le uniche ore ordinarie e rilassate di tutti quei mesi in compagnia della redazione. Ricordo pure la telefonata che Porro mi fece fare all’altro pensatore di Clarence, Igino Domanin, che era stato querelato dal figlio di Johnny Dorelli, o da Johnny Dorelli in persona, per un articolo un po’ troppo canzonatorio. Avrei dovuto telefonargli e fingermi un carabiniere, o un magistrato, che gli faceva presente di essere contumace. «Chiamalo tu, tanto non sa chi sei e non ti riconosce». Mi produssi in una performance notevole: finsi di essere un maresciallo di Procida e, tra le mie fresche reminiscenze giuridiche e la totale ignoranza del codice di procedura da parte di Igino, che insegnava filosofia alla Statale, lo feci uscire di testa. Era terrorizzato. Porro e gli altri si godettero la scena doppiamente perché, a separarci, c’era solo una vetrata. Alla fine, il direttore si riprese il telefono con l’auricolare dicendomi che ero «un fottuto genio».
Più fottuto che genio, però. Nelle ultime settimane di stage, venni messo a impaginare i pezzi di Riccardo Orioles. Poi a preparare lo speciale otto marzo, con le prime vendite via web di mimose. Ero stupido, ma non tanto da non capire che non era una promozione. Un giorno, con lo stage in scadenza, chiesi di farmi sapere il prima possibile cosa ne sarebbe stato di me, perché stavo cercando casa a Milano. Porro mi convocò un mattino e mi disse che no. Non andavo bene. Forse aggiunse che gli spiaceva, ma era ovvio che non fosse così. Semmai, poteva trattarsi di umana pietà. Aveva lo stesso tono usato nel colloquio cinque mesi prima quando, alla domanda su quali passioni coltivassi a parte il tennis, gli avevo imprudentemente citato il caso Kennedy. «Quindi hai letto Lira di Don DeLillo», mi aveva incalzato. No, porca puttana. Perché era un cazzo di romanzo e, di leggerlo, me ne fregava una beata fava: io ero interessato al caso Kennedy, non alla letteratura su Kennedy. Mi ero spizzato tutto il rapporto Warren, tutto, da pagina 1 a 886. Centinaia di saggi e di ricerche. Dei romanzi su JFK non me ne facevo nulla. Questa era la risposta che sognavo di tossire sulla scrivania del direttore: quella che mi uscì dalla bocca fu qualcosa di simile, per usare un termine che Genna adorava piazzare qua e là, a un borborigmo. Mi interruppe prima che riuscissi a comporre una parola di senso compiuto: «Sì, vabbè, ho capito: non lo hai letto». Ecco: come prendere gol in casa, al primo minuto, con un retropassaggio del difensore e il tunnel al portiere.
Mentre argomentava – ma ormai non ascoltavo più, perché ero rimasto al «non vai bene» – mi venne in mente una cappella clamorosa, tra le tante, di cui ero stato protagonista durante la mia permanenza a Clarence. Il grafico russo si era inventato un giochino divertente, il Berlusgotchi (http://guide.supereva.it/…/interventi/2005/11/233387.shtml), una specie di sfondo del desktop animato che perculava il Cavaliere, e io ero stato incaricato di scriverne il lancio. Solo che, perennemente in bilico tra lo stare schiscio, come dicono a Milano, e provare a metterci qualcosa di mio, avevo deciso di obbedire supinamente al consiglio di «parlare con Nikolai, che il programmino lo ha fatto, e scrivere quello che ti dice lui». Peccato che Nikolai, a parte sapermi prendere per i fondelli per l’acconciatura desueta, parlasse un pessimo italiano e non sapesse che cazzo dirmi. «E ke ne zo, a fondo di pezzo skrivi ke speriamo arriva presto primavera!» Tragicamente, misi giù paro paro. Fu la prima volta che Porro, da casa, entrò nella homepage di Clarence e, visto il lancio, cancellò il pezzo per intero, preferendo lasciare un rettangolo bianco. Arrivato in ufficio, non mi disse neanche di correggerlo. Solo che non era scritto in italiano. Poi lo scrisse lui. Aveva ragione.
Qualche settimana prima di essere rispedito a pascolare le pecore, stavo parlando con Gufo del fatto che un nostro collega fosse solito sparlare dei pezzi scritti dagli altri redattori di Clarence, sostenendo che facessero tutti quanti schifo a parte, naturalmente, i suoi. In quel mentre, era passata dal corridoio la contabile, che era fidanzata con Gianmarco, il fratello di Neri. Questa aveva frainteso ed era andata a spifferare, senza farsi domande, che lo stagista oscuro diffamava impunemente il buon nome di Clarence. Di quello stronzo maledetto dell’angelo Clarence. Lo venni a sapere solo quel dì, quando Porro consigliò al futuro reporter dell’Eco della Valle Gesso di «imparare a muovermi in azienda, perché anche i muri hanno le orecchie». L’umiliazione maxima, prima del congedo, fu sentirmi dire che, a dispetto delle qualità ruspanti, ero uno «che si butta, magari fai la cazzata ma ti butti, e questa cosa ti aiuterà sul lavoro». Una sega con la faccia di bronzo. Bello.
Anzi, no: l’umiliazione maxima fu venire a sapere, nella stessa mattinata, che la nuova stagista – una studentessa di filosofia di Domanin – era stata assunta dalla stessa mano che mi aveva pinzato per il dolcevita e accompagnato all’uscita. Elena, si chiamava. Si era comprata un manuale di Html spesso come il Rocci, non ci capiva una mazza né di web, né del canale di notizie cui era stata assegnata. Mi faceva domande che Genna avrebbe definito esoteriche, del tipo: «Ma se clicco qui, cosa succede?» oppure «Che cosa intendi, con Jpeg?». La considerazione che mi lasciava sgomento era che fosse stata unanimemente ritenuta più brava di me. Forse sulla fiducia che, peggio di me, non potesse comunque essere. Nessuno poteva essere più scarso di me. Cretino io a bussare a Milano per farmelo certificare.
Qualche anno dopo, all’alba dei social network, mi imbattei su Facebook in una pagina di commemorazione dei bei tempi andati di Clarence. Per me, belli come una colonscopia. Ci scrivevano tutti quanti, su quella pagina. Pure l’elettricista che aveva fatto scendere i cavi per collegare la redazione a Internet e veniva accolto festosamente, come uno di loro. Ansioso di riscatto, mi palesai. Salvo quello dei Marlene Kuntz, nessuno diede a intendere di ricordarsi di me. Quando provai a scrivere a Genna, bastò un toc-toc mansueto sulla sua spalla citando la GennaCam, o lo speciale L’uomo-lira con Porro che lo fotografava (con un aggeggio fantasmagorico, faceva foto e le piazzava su un supporto digitale) mentre si faceva di banconote durante il doloroso passaggio all’euro, o qualche altra idea bislacca di quel 2001. Manco mi rispose: in compenso, mi bannò. Ero ripiombato nella realtà dello stagista. Del tontolone. Dello scarsone. Ai tempi, avevo iniziato a firmare sull’Unità. Nel tennis, ero passato da guardare le partite in tivù a commentarle. Niente: come si soleva dire nel mio ginnasio, mqm. Minus quam merdam, a vita. LWOP, ergastolo senza condizionale: schifo fai, schifo per sempre farai.
Quella volta, ebbi la dolorosa sensazione che la clarencite non mi sarebbe passata del tutto, manco avessi saccheggiato i Pulitzer. Dal 2002 in poi, non dissi mai più a nessuno che avevo fatto uno stage a Clarence, contribuendo inconsapevolmente a nutrire in me quel feticcio del quale non mi sarei liberato facilmente. Nonostante lo trovassi sostanzialmente insensato, conservai per tre traslochi la tazza di Clarence come portamatite, salvo appicciarci su un adesivo di Joe Rivetto e tenerla girata dal lato opposto a quello del logo. Era il mio volere e non potere, il mio memento vomiti (ricordati che scrivi da far venire i conati). Qualunque cosa avessi fatto, messa a fianco di quelli di Clarence sarebbe rimasta la cazzata mal scritta di uno stagista sfigato.
Credo anche di essere arrivato a sognare, poco dopo aver preso a scrivere per Sette del Corriere, una copertina con Neri e Grassilli che facevano i ganassa (adesso lo conosco il milanese, visto?) su una Limousine. Non era un sogno: era uscita davvero e quella rivista era appoggiata sul davanzale in via Torino, accanto al cartonato dell’angelo di stocazzo. «Noi siamo miliardari, e tu?», recitava il titolo. Niente: anche quella volta erano stati più bravi di me, e con una vita di anticipo.
In compenso, noto – con un certo sollievo – che ora riesco a scriverlo senza extrasistoli, né avvertire la necessità di rimuginare sulla circostanza che qualcuno potrebbe aprire la finestrella della chat di Clarence e tacciarmi di cafonaggine da rusticano, invitandomi a tornare nella spelonca dalla quale sono uscito: il film La vita è meravigliosa mi aveva fatto veramente, ma veramente, ma veramente cagare.

Un pensiero su “www.clarence.(vaffa).com

  1. nic

    pensa che sfigato sono io: quando ho letto Clarence pensavo fosse un pezzo su Bigman Clemons

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