Li mando tutti in Paradiso

di | 4 Dicembre 2018

Breeze Knoll, Westfield

A Westfield, una ventina di chilometri da New York, c’è una magnifica casa vittoriana, la più bella della città. Si chiama Breeze Knoll (il poggio della brezza) e, da qualche anno, è occupata da una famiglia numerosa. Sono i primi giorni di dicembre del 1971. La famiglia del contabile John Emil List, che abita la dimora, non si trova più. I quotidiani si sono impilati sulla soglia giorno dopo giorno, nessuno li ha più ritirati. Né lui, né la moglie Helen, né i figli Patricia, John o Frederick, né la mamma Alma. Quasi un mese prima, alla scuola dei figli, era stata recapitata una cortese lettera, firmata dal padre, nella quale si chiedeva di giustificare l’assenza dei ragazzi: John aveva spiegato che tutti i List sarebbero rimasti fuori città per qualche tempo, in modo da offrire assistenza a un familiare malato.
Una coppia di vicini di casa, però, era preoccupata per alcune stranezze: le luci di casa rimanevano accese tutto il giorno e tutta la notte, da settimane, e iniziavano a spegnersi pian piano; in più, non c’erano segni di vita da parte dell’anziana e debilitata signora Alma, che era rimasta d’accordo con loro per farsi accompagnare in città per ritirare un paio di scarpe e, comunque, era solita farsi sentire con una certa frequenza. Sembrava strano che, d’un tratto, fosse partita senza avvertirli.

La polizia decise di dare un’occhiata il 7 dicembre, il giorno in cui Ed Illiano, il maestro di teatro della giovane Patricia List, andò a farsi un giro nei pressi della casa, insospettito da quell’assenza così prolungata, senza neanche una telefonata. I dirimpettai lo videro e chiamarono le forze dell’ordine, segnalando uno sconosciuto che stava violando la proprietà della famiglia List. L’agente Charles Haller e il collega George Zhelesnick arrivarono, chiarirono l’equivoco con il signor Illiano e decisero di entrare in casa, usando una finestra che non era stata bloccata dall’interno. In cucina, notarono strisce color rosso bruno in terra, che parevano scie di sangue. Alcuni pensili di legno erano forati. Si avvertiva un odore pungente, nauseabondo. L’ambiente si presentava spettrale: riscaldamento spento, luci accese. Nessuna voce umana. Solo musica: dalla filodiffusione, che raggiungeva tutte le stanze, si sperdeva nell’aria una melodia classica di una stazione radio specializzata di New York. Haller, continuando inutilmente a gridare “Polizia!” entrando in ciascuna stanza, giunse davanti a una grande porta, coperta da un doppio tendone di velluto. Ebbe il coraggio di scostarlo e di entrare, annunciandosi, nella gigantesca sala da ballo di casa List, l’unica camera con le luci spente.
Fatto un passo nella stanza, puntò la luce della torcia verso il pavimento.

 

Quarantasei anni, alto, sottile, modi garbati, sobrio, John Emil List era un vero gentleman. Unico figlio di John Frederick e Alma Maria, discendenti di immigrati tedeschi che si erano incontrati e sposati in Michigan e sistemati nella piccola cittadina di Bay City, aveva avuto un’infanzia tranquilla. Molto tranquilla. Suo padre, sposato in seconde nozze dopo la morte di Anna Maria, aveva 61 anni quando John era nato; sua mamma, 38. Entrambi stretti osservanti della dottrina luterana, avevano presto introdotto il figlio nella comunità religiosa locale e nel volontariato domenicale. Nonostante gli anni della depressione economica, il capofamiglia era riuscito ad aprire un negozio di alimentari in una strada della città colonizzata da immigrati tedeschi, e pure a ad aggiudicarsi un terreno agricolo. La casa dei List era una villetta a due piani il cui spazio superiore era affittato, sicché i tre occupavano le stanze del piano terreno. John non aveva una sua camera: dormiva nel salotto e gli era stato prescritto dai genitori, al mattino, di ritirare tutto (coperte, cuscino, vestiti, giornali, libri) facendo in modo di non lasciare segni della sua presenza. Laura Werner, la signora che aveva affittato l’appartamento dei List, avrebbe poi parlato del piccolo John come del «ragazzino più pulito e ordinato che avessi mai visto. Era così silenzioso e composto che, spesso, non ti accorgevi neanche che fosse nella tua stessa stanza».
John era un ragazzo di poche parole, educato e rispettoso; sicuramente chiuso e poco incline a socializzare, a detta di chi conosceva la famiglia, anche perché mamma Alma era oltremodo severa e pretenziosa. E ansiosa: i vicini di casa ricordano che preferiva tenerlo seduto in cucina accanto a sé, piuttosto che concedergli il permesso di uscire per divertirsi con gli amici. Tanto che i compagni di giochi, dopo un po’, avevano smesso di cercarlo. Altri rammentano che Alma gli ordinava continuamente di lavarsi le mani, di non correre, di non sudare, terrorizzata dall’idea che potesse prendersi un raffreddore. Ma a lui sembrava andare tutto bene, non protestava mai, non parlava se non gli si chiedeva di farlo. Anche la stretta disciplina cui era stato sottoposto fin dall’infanzia sembrava adatta al suo carattere. La attività principale del giovane John era prendersi un libro, sedersi in un angolo e leggere. Tutte le sere, mamma e figlio si chiudevano in camera a studiare passi della Bibbia. Di sé, in vecchiaia, John List avrebbe detto: «Ero sempre solo. Non avevo amici, né fratelli né sorelle con cui giocare o litigare». Secondo chi li conosceva, John Frederick e Alma ritenevano che la società americana libertaria fosse contraria ai princìpi cristiani, ragione per cui tendevano ad allontanare il figlio dalle abitudini pagane dei suoi coetanei. Un anno, a casa List, era capitato un incidente spiacevole: durante la serata di Halloween, il padre aveva rincorso due ragazzini che avevano suonato al campanello. Uno dei due giovani, nella fuga, si era ferito cadendo in un fosso. Era stato necessario l’intervento del pastore luterano per evitare che i genitori del ragazzo denunciassero mister List, un omaccione non più nel fiore degli anni ma ancora robusto e vigoroso, per lesioni. Da allora, John era stato ancora più isolato dai giovani del quartiere, che avevano preso a chiamarlo “John dolcetto o scherzetto”.

Nel 1943, appena maggiorenne, John era partito per il fronte. Aveva speso il suo servizio nella madrepatria dei genitori, combattendo in Germania con le mansioni di tecnico in una divisione di fanteria. Finita la guerra, era tornato a casa e si era iscritto all’università del Michigan, nel campus di Ann Arbor. Laureatosi in amministrazione aziendale e conseguito un master in contabilità, si era iscritto nei riservisti universitari. A 25 anni l’esercito lo aveva richiamato, perché la guerra in Corea richiedeva sempre più truppe. Quella volta, però, non era stato mandato sul campo ma a Fort Eustis, in Virginia. Là aveva conosciuto una ragazza, Helen, giovanissima vedova di Marvin Taylor, un ufficiale morto proprio sul fronte coreano. Helen e Marvin avevano avuto una figlia, Brenda Joyce, che aveva otto anni quando sua mamma e John List si erano conosciuti. Helen aveva occhi solo per quel ragazzo così distinto e pacato, laureato e promettente: tanto che, dopo appena tre mesi, il primo dicembre del 1951, Helen Morris in Taylor era diventata la signora Helen List. Dopo le nozze, celebrate a Baltimora in una chiesa luterana, i due si erano trasferiti in California per seguire il lavoro di John, assunto dall’Esercito come contabile.

Più avanti si sarebbe saputo che John non aveva intenzione di sposarsi e che lei, per convincerlo, aveva finto di essere incinta. Una seconda versione è che lei pensasse davvero di essere incinta, ma si fosse sbagliata. Comunque la prima figlia dei List, Patricia, sarebbe nata solo quattro anni dopo, nel gennaio del 1955. Al suo psichiatra, un anziano John List avrebbe raccontato che detestava gli scontri e aveva passato tutta la vita a cercare di evitarli: tanto che, una volta scoperto il probabile inganno della moglie, se ne era sùbito fatto una ragione e aveva cercato di adattarsi alla sua situazione di uomo sposato, rassegnandosi ai desideri della sua sposa.

Una volta ottenuto un impiego sufficientemente redditizio, la famiglia List si allargò velocemente: nell’ottobre 1956 nacque John Frederick, nell’agosto 1958 toccò a Frederick Michael. Tutti e tre i figli erano nati a Kalamazoo, città del Michigan in cui John aveva trovato impiego come revisore dei conti in una cartiera; in precedenza, il capofamiglia era stato impiegato in uno studio di commercialisti di Detroit. Ma la sua carriera professionale, contro ogni previsione, stentava. Difficilmente John List manteneva a lungo il posto di lavoro o veniva promosso, nonostante portasse con sé l’apparenza di tutto ciò che potesse servire per farcela: titolo di studio, approccio sofisticato, presenza rassicurante, meticolosità. Secondo chi li conosceva e frequentava, poi, i List erano una bella famiglia; John non era espansivo e difficilmente giocava con i suoi figli o si intratteneva con loro, ma era attento al suo ruolo e ai bisogni dei suoi cari. Ci teneva molto che tutti frequentassero la parrocchia luterana.
Vent’anni dopo i fatti un altro sacerdote luterano, il reverendo Edward Saresky, avrebbe detto che la signora Helen non era ciò che sembrava e che, in privato, aveva una pessima considerazione del marito: «Lo riteneva una mezza calzetta rispetto al primo suo sposo. Sosteneva che, se John fosse stato anche solo metà di Marvin, non avrebbero avuto tutti i problemi che invece erano costretti ad affrontare. Si lamentava lui perché era troppo timido, troppo riservato, era uno che non reagiva mai e si arrendeva senza lottare». Pochissime persone, ai tempi, immaginavano che quello fosse il vero clima di casa List. Lo psichiatra avrebbe valutato il paziente John List come una persona «costantemente repressa, completamente incapace di esprimere ciò che provava sin da piccolo, costretto a deglutire e digerire tutto senza fiatare». Tra i pochi a sapere la verità c’era Brenda, figlia di Helen e figliastra di John, che però nel 1960 si era sposata e aveva lasciato casa. Tra il 1961 e il 1964, John List aveva trovato lavoro alla Xerox Corporation, ovviamente come contabile. Venne licenziato dopo poco. Secondo i suoi principali, John era sembrato più che adatto al lavoro in sede di colloquio ma, in realtà, non lo era stato più di tanto alla prova dei fatti. Sembrava bravo, ma non lo era. Soprattutto, era limitato: se c’era da abbandonare la routine contabile e assumere incarichi di maggior responsabilità, non era in grado di adattarsi. Non sapeva essere elastico, affrontare la modernizzazione; in più, era sì educato e formalmente ineccepibile, ma non riusciva a coordinare le persone, né a farsi ascoltare. Era sì preciso e attento, ma di una ripetitività ossessiva e quasi ottusa. In generale, era un uomo che si candidava per posizioni che talora otteneva perché dava di sé una buona impressione.

Tuttavia, nel 1965 la sede della First National Bank di Jersey City gli aveva finalmente offerto un lavoro di qualità, la carica di vicedirettore. I List, per quell’ultimo trasferimento che si sperava definitivo, comprarono la casa più grande e lussuosa di Westfield, Breeze Knoll. Una casa che, si saprà, lui non pensava di potersi permettere e che, in definitiva, non voleva. Ma che la moglie desiderava a tutti i costi: John, ovviamente, si era fatto convincere senza combattere. Pensava che, in fondo, sarebbe stato un bel posto per far crescere i figli e, del resto, l’acquisto avrebbe dato lustro alla famiglia, giacché lui teneva molto alle apparenze: non tanto a dimostrare di essere ricco, quanto di essere una persona realizzata, a capo di una famiglia modello. Il papà di John, il burbero, era morto durante la guerra, nel 1944; mamma Alma c’era ancora, era attiva e dinamica a dispetto della salute. Stava invecchiando sola e quindi, senza farne parola con il resto della famiglia, e sempre nello spirito di accontentare gli altri, John aveva chiesto un prestito alla madre per potersi permettere la villa. Offrendole, in cambio, di occupare alcune stanze al terzo piano.

Nel 1966, la First National lo aveva già licenziato. Quella volta, però, John List non se la sentì di ammettere il fallimento davanti a tutti. Anche perché la notizia avrebbe creato il panico: casa, moglie a carico e figli avevano continuamente bisogno di essere finanziati. Quindi, per non dover affrontare il fallimento e una situazione in cui sarebbe stato certamente accusato della rovina della famiglia, fece finta di niente. Tutte le mattine, usciva di casa come se dovesse andare in ufficio; prendeva il treno, scendeva dopo un paio di fermate e passava la giornata in stazione, a leggere il giornale. Sonnecchiava, guardava i convogli che passavano. Cercava di farsi venire un’idea per uscire dalla buca in cui era scivolato. Né la sua famiglia, né amici e conoscenti sospettarono mai alcunché. Nessun’azienda, banca, società era disposta a dargli un lavoro di pregio: per cinque anni tentò, mettendosi in proprio, di trovare collaborazioni come consulente esterno, ma tutto quello che riuscì a ottenere furono lavoretti e piccoli ingaggi. Le spese di casa e per i ragazzi crescevano, i risparmi si stavano prosciugando. All’insaputa della madre, una volta esauriti i risparmi John iniziò a prelevare denaro dal suo conto e a usarlo per pagare il mutuo, le bollette, rette della scuola e spese correnti.

Nel mentre, la salute fisica e mentale di Helen List, come John aveva avuto modo di capire da quando aveva preso a insultarlo gratuitamente, si stava rapidamente deteriorando. A molto tempo dai fatti, il maestro di teatro Ed Illiano raccontò che la signora era molto malata, e che ormai se ne erano accorti in parecchi. Si vociferava che soffrisse addirittura di un’atrofia cerebrale, pareva fosse dipendente da farmaci e alcol; spesso stava rintanata in camera da letto per intere giornate, ed era solita inveire sempre più spesso contro il marito, accusandolo di essere una nullità e paragonandolo, sessualmente, al suo primo marito morto in guerra. Il tutto, senza farsi scrupolo di essere ascoltata dai figli. John, secondo questa versione, reagiva scappando in lacrime, senza replicare. Si rintanava in una delle stanze dei figli. Betty Jean Syfert, sorella di Helen e del tutto interessata a dare la peggior descrizione possibile del cognato, testimoniò che, probabilmente, la sorella era stata contagiata proprio dal primo marito e che soffriva di sifilide: una malattia venerea causata da un batterio che, nella forma cronica, può causare danni al cervello. La Syfert disse che, un giorno del 1968, era andata a trovare i List a Westfield. Aveva trovato una casa bellissima da lontano ma stanze sporche, pareti da ridipingere, manutenzioni lasciate perdere e «qualcosa di molto diverso da una casa a posto. Mia sorella, quel giorno, rimase praticamente sempre coricata. Sul suo comodino c’erano farmaci di tutti i tipi, burro di arachidi, gusci. La stanza era disordinatissima, come lei, trasandata e sporca. Il pavimento era zozzo». Anche la tenuta, a un’occhiata più attenta, mostrava segni evidenti di degrado. Tanto che, nel primo articolo uscito sulla stampa locale dopo i fatti, si faceva riferimento all’abitazione non come di una lussuosa casa storica, ma di uno stabile “in need of paint”, bisognoso di tinteggiatura. L’arredamento era incongruente: a fronte di alcuni pezzi piuttosto pregiati, la moltitudine di stanze era stata riempita con mobili di stili differenti, spesso di nessun valore, in contrasto con la magnificenza di una casa che, negli anni precedenti, era stata abitata da famiglie molto ricche e decorata con complementi di lusso.

Il 9 dicembre 1971, due giorni dopo l’ispezione della polizia in casa List, un agente di polizia trovò l’automobile di famiglia, una Chevrolet Impala del 1963, parcheggiata nella zona riservata alle soste lunghe dell’aeroporto JFK di New York. Dal biglietto sul parabrezza, si capì che era ferma dal 10 novembre.
In casa, il 7 dicembre, l’agente Charles Haller si era trovato davanti quattro cadaveri allineati in mezzo alla stanza. Ciascuno coricato su un sacco a pelo, con i volti coperti da stracci. Al piano superiore, giaceva il corpo della signora Alma. Sulla scrivania dello studio del signor List, l’unico assente alla conta dei corpi, una serie di lettere. La più lunga, era all’attenzione del pastore luterano.

9 novembre 1971

John Emil List (1925-2008)

Caro pastore Rehwinkel,

sono dispiaciuto di aggiungere quest’altro fardello al suo lavoro. So che quello che è stato fatto è sbagliato, rispetto a tutto ciò che mi è stato insegnato. E so che ogni giustificazione che potrei dare non lo renderà giusto. Ma lei è la sola persona che conosco che, se anche non mi perdonerà, almeno potrebbe capire perché sentivo di doverlo fare.

1. Non guadagnavo più una cifra neanche vicina a quella che serviva per mantenerci. Tutto quello che provavo a fare, finiva male. Certo, avremmo potuto dichiarare bancarotta e magari ottenere assistenza sociale.
2. Ma questo mi porta al prossimo punto. Sapere il tipo di posto in cui saremmo finiti, in aggiunta all’ambiente in cui i miei figli si sarebbero trovati, più l’effetto sulle loro vite (sapendo che sarebbero stati assistiti dai servizi sociali) era davvero più di quanto pensavo potessero e dovessero sopportare. So che sarebbero stati disposti a sacrificarsi, ma questa situazione avrebbe comportato molte più cose rispetto al solo fatto dell’assistenza.
3. Con Pat(ricia) così determinata a perseguire la carriera da attrice, ero anche timoroso per quanto ciò avrebbe avuto a che fare con il suo continuare a essere Cristiana. Sono sicuro che non avrebbe aiutato.
4. In più, con Helen che non frequentava la chiesa, sapevo che questo, alla fine, avrebbe danneggiato anche i ragazzi nella loro frequentazione. Ho continuato a sperare che lei iniziasse a venire in chiesa, prima o poi. Ma quando le ho detto che il signor Jutze voleva farle una telefonata, lei ha sbottato e ha risposto che voleva che il suo nome fosse cancellato dagli elenchi della parrocchia. Di nuovo, questo avrebbe avuto unicamente effetti avversi sulla frequentazione della chiesa da parte dei ragazzi.

Quindi, questa è la situazione. Se ci fossimo trovati in uno solo di questi guai, forse ce la saremmo potuti cavare. Ma tutto insieme era semplicemente troppo. Almeno, ora sono certo che tutti quanti sono andati in paradiso. Se le cose fossero andate avanti, invece, chissà se ci sarebbero mai andati.

Ovviamente, Mamma è stata coinvolta perché vedere quello che ho fatto alla mia famiglia sarebbe stato uno shock tremendo per lei, alla sua età. Quindi, sapendo che anche lei è Cristiana, ho pensato fosse meglio sollevarla dai dolori di questo mondo, che l’avrebbero inevitabilmente colpita.

Dopo che tutto è finito, ho recitato alcune preghiere per loro – tutte dal libro dei salmi. Era il minimo che potessi fare. Ora, per le disposizioni finali: Helen e i ragazzi erano tutti d’accordo che avrebbero preferito essere cremati. Per cortesia, faccia attenzione che i costi restino bassi. Per Mamma, lei ha un posto al Frankenmuth Church cemetery. Per cortesia, contatti Mr. Herman Schellkas (Route 4, Vassar, Mich. 41768). Lei è sposata con un nipote di Mamma e sa quali cose vadano fatte per la sepoltura. (Ha sempre detto di volere il Reverendo Herman Zehnder di Bay City a recitare il sermone. Ma so che non sta bene.) Le lascio anche alcune lettere in custodia: per favore, le spedisca e aggiunga qualunque commento le paia appropriato. Queste sono le parentele:  Mrs. Lydia Meyer – sorella di Mamma. Mrs. Eva Meyer – mamma di Helen. Jean Syfert – sorella di Helen.

Non so cosa accadrà ai libri e agli oggetti personali. Nel limite del possibile, mi piacerebbe che lei li distribuisse a suo piacere. Alcuni libri potrebbero andare alla scuola o alla libreria parrocchiale. Inizialmente avevo programmato questo per il primo novembre – Ognissanti. Ma i preparativi per il viaggio hanno creato ritardo. Pensavo fosse un giorno giusto perché andassero in paradiso.

Per quanto riguarda me, per favore mi depenni dalle liste della congregazione. Mi metto nelle mani della Pietà e Giustizia del Signore. Non ho dubbi che Egli sappia aiutarci, ma pare che abbia ritenuto opportuno non rispondere alle mie preghiere, almeno nella maniera in cui speravo rispondesse. Questo mi ha portato a pensare che forse lo faceva perché capitasse il meglio, essendoci coinvolte le anime dei ragazzi. So che molti guarderanno solo agli anni di vita che loro avrebbero ancora potuto vivere: ma se, alla fine, non fossero più stati Cristiani, che cosa ci avrebbero guadagnato?

Sono anche sicuro che tanti diranno: “Come può qualcuno fare una cosa così orribile?”. La mia sola risposta e che non è facile, e che è stato fatto solo dopo averci pensato molto.

Pastore, Mrs. Morris credo possa essere raggiunta al 802 Pleasant Hill Drive. Elkin – casa di sua sorella. Ancora una cosa: potrebbe sembrare da codardi aver sempre sparato da dietro, ma non volevo che nessuno di loro sapesse, neanche all’ultimo secondo, che avrei fatto loro questo. John è stato colpito più degli altri perché sembrava soffrire di più. Gli altri sono stati immediatamente sollevati dal dolore. Lo stesso John, consciamente, non ha avvertito nulla. Per favore, mi ricordi nelle sue preghiere. Ne avrò bisogno, che la autorità civili facciano o meno il loro dovere. Sono solo preoccupato di far pace con Dio, e di questo sono certo perché Cristo è morto anche per me.

PS Mamma è nel corridoio dell’attico – terzo piano. Era troppo pesante da spostare.

John

[Il reverendo Eugene Alfred Rehwinkel (1931-2004) era il pastore della chiesa luterana di Westfield frequentata dalla famiglia List]

John Emil List era dissolto nel nulla. Con quasi un mese di vantaggio sulla polizia e l’FBI, conquistato con mosse premeditate che giustificavano la incombente assenza della famiglia, e le incertezze dei vicini nel denunciare la scomparsa, trovare le sue tracce risultò subito complicato.
Dalle prime indagini, si scoprì che nelle ore che avevano preceduto il massacro aveva ritirato gli ultimi soldi dal conto della madre; tanto che, per pagare i funerali della famiglia, si era dovuti ricorrere a una piccola polizza del figlio più giovane, sui 2.000 dollari, e il curatore nominato per amministrare i beni dei List aveva venduto alla svelta alcuni mobili all’asta. Tutte le ricerche di routine furono vane. Non era registrato alcun John List in alcuna lista passeggeri dell’aeroporto, non si era più visto in città, non aveva preso contatti con nessuno. Nessuna carta di credito utilizzata dal 9 novembre, né altri segni di passaggio. Senza telecamere, computer o web, nel 1971 nascondersi era più facile. Forse John list era volato all’estero sotto falso nome, forse era andato ad ammazzarsi chissà dove. Il suo passaporto non risultava tra gli oggetti di casa, ma certamente non lo aveva utilizzato per espatriare. Le ultime due telefonate, le aveva fatte il 9 novembre al reverendo (per scusarsi di non poter essere presente, per un po’, alle attività domenicali della chiesa) e al signor Illiano, il maestro della figlia, per informarlo dell’assenza di Pat dalle prove in teatro. Il motivo, il medesimo: la suocera malata e bisognosa di assistenza, nella Carolina del nord. Una bugia.
Dopo qualche giorno di trambusto nei notiziari nazionali, la tragica fine della famiglia List iniziò a perdere di interesse, semplicemente perché non c’erano novità: tutti morti, uccisi dall’uomo di casa, che però era sparito. La casa iniziò a essere vandalizzata, i cacciatori di souvenir portarono via di tutto, dalle fotografie a pezzi di arredamento; anche la buca delle lettere venne rubata. La polizia fermò alcuni ragazzini che, una notte, giravano per le stanze della casa facendosi luce con alcune candele, per sfidare la paura. Erano rampolli di famiglie in vista della città. La casa venne venduta all’asta. Dopo qualche settimana, i giornali non avevano più storie da raccontare e anche le pubblicazioni locali smisero di parlare dell’assassino in fuga John List.

A duemilaottocento chilometri da Westfield, città di Denver, in un parcheggio per caravan e case mobili, il signor Robert Peter Clark aveva trovato lavoro nel turno serale all’Holiday Inn West, un albergo con ristorante affacciato sulla Interstate 70. Schivo e riservato, aveva pagato la sua casa in contanti, non aveva automobile, veniva dal Michigan ed era vedovo, senza figli. Il suo capo lo riteneva molto efficiente, anche se di sé diceva di essere stato un contabile e non un cuoco, lo riteneva solo un po’ rigido, abitudinario. Certamente, religiosissimo: leggeva la Bibbia, aveva chiesto abbastanza presto informazioni sulla più vicina parrocchia luterana. Per più di due anni, Bob Clark aveva fatto le sue ore di lavoro in hotel, iniziando a mettere radici in città: una volta era andato in gita sui monti con un collega di lavoro, che lo aveva trovato eccessivamente pignolo (al punto che, per tutto il viaggio, aveva ossessivamente guardato la cartina e anticipato le svolte e gli incroci, senza mai godersi il viaggio). Nel 1974, il suo principale trovò un altro impiego, come cuoco al Pinery Golf&Country Club in Columbine Street, e si portò dietro Bob Clark; lo aiutò a vendere la casa provvisoria e a trovare un appartamentino affittato. Nel 1975, per la prima volta il nome di Robert P. Clark comparve nell’elenco telefonico di Denver, Colorado. Quello stesso anno, il parroco della chiesa luterana lo registrò come nuovo fedele. Poco dopo, prese la patente e comprò un maggiolino Volkswagen usato. Nel 1977, Bob Clark conobbe Delores H. Miller, che iniziò a frequentare come parrocchiana. Nel 1985, sette anni dopo, si sarebbero sposati. Nel mentre, era riuscito a lasciare la cucina del club e a farsi assumere come contabile in due piccole aziende della periferia di Denver. Niente da fare, però: dopo poco tempo, entrambe lo avevano lasciato a casa.

John List dopo l’arresto e la scultura di Frank Bender. Al momento della cattura, indossava gli stessi occhiali della fotografia

Nel 1988, a 63 anni, il quieto Bob Clark e la nuova moglie Delores erano in seri problemi economici, perché mancavano entrate e lui, della sua vita con la prima moglie morta di cancro, non aveva conservato nulla, né un oggetto né un bene vendibile, né un dollaro. A forza di rispondere a inserzioni, trovò lavoro in un altro Stato: a Richmond, in Virginia, come contabile. Si trasferì là con la moglie. Nel mentre, il 21 maggio 1989, la trasmissione televisiva America’s Most Wanted presentò una puntata dedicata alla strage di Westfield del 1971, uno speciale visto da decine di milioni di spettatori. La produzione chiese a un famoso scultore forense, Frank Bender, di aiutarli nelle indagini. Basandosi sulla sua storia, e su fotografie di vent’anni prima, Bender aveva ricostruito quelle che dovevano essere le sembianze di un anziano John List. Secondo lui, se mai ancora vivo, era probabilmente ancora una persona attenta ed elegante, che indossava occhiali con la montatura da intellettuale, per offrire di sé un’immagine distinta. La vicina di casa di Bob e Delores Clark, la signora Wanda Flanery, guardò il programma e, per la seconda volta, trasalì. Già due anni prima, sfogliando una rivista che raccontava la storia dei List, aveva conservato il giornale e lo aveva fatto vedere all’amica Delores, dicendole – tra il serio e il faceto – che quel John List somigliava incredibilmente a suo marito: aveva gli stessi tratti somatici, la stessa cicatrice dietro l’orecchio destro, faceva lo stesso mestiere e veniva dallo stesso Stato dell’assassino. Delores si era quasi offesa.
Dopo la trasmissione, la Flanery si decise ad agire: telefonò all’FBI. L’agente Kevin August raccolse la denuncia e, il primo giugno del 1989, partì per un giro di ispezioni con un collega: America’s Most Wanted aveva generato migliaia di segnalazioni e, solo quel giorno, ce n’erano cinque da verificare. Iniziarono da quella più lontana: Brandermill, sobborgo residenziale di Richmond. Casa di Robert Clark. Al campanello rispose la moglie, sola. Il marito era al lavoro. La conversazione fu breve, August le mostrò il volantino del ricercato John Emil List. Delores sapeva della trasmissione televisiva, confermò le corrispondenze (età, lavoro, tratti somatici) e mostrò una fotografia del loro matrimonio. Ma continuava a ripetere che no, l’uomo somigliava a Bob ma non poteva essere Bob, la persona più cara e innocua del mondo. Gli agenti cercarono di tranquillizzarla, dicendole che era comunque opportuno verificare anche solo per cancellare il marito dalla lista dei sospetti, e si fecero dare l’indirizzo dell’ufficio: 1506 Willow Lane Drive, Richmond. Studio contabile Maddrea Joyner. L’agente August si fece accompagnare alla scrivania di Bob Clark, che era in un’altra stanza a fare fotocopie.

«Signor Clark, sono dell’FBI. Dobbiamo confermare la sua identità. Mi dice il suo nome per esteso?»
«Robert Clark.» Bob non sembrava stupito, né teso. Non faceva domande.
«Signor Clark, lei ha una cicatrice dietro l’orecchio?»
«Sì.»
«Lei è nato in Michigan?»
«Sì.»
«Lei è un contabile?»
«Sì.»
«Lei è John Emil List?»
«No.»

Bob Clark non disse «Ma chi diavolo è John List?», oppure «Ma che diamine sta succedendo?» Rispondeva alle domande, o stava zitto. L’agente August lo ammanettò e lo portò via con la formula di rito: «Signor John List, lei è in arresto per l’omicidio di Helen List, Patricia List, Frederick List, John F. List e Alma List. Ha il diritto di non parlare. Qualunque cosa dica potrà essere usata contro di lei in aula. Lei ha diritto a un avvocato: se non se lo può permettere, lo Stato gliene assegnerà uno gratuitamente.»

 

FAST FACTS
– Al distretto, a Bob Clark vennero prese le impronte digitali e comparate con quelle lasciate durante il servizio militare da John List. Coincidevano.
– John List non si poté permettere un avvocato. Al processo, fu difeso da un legale di ufficio che tentò di far passare la linea della malattia mentale.
– Richiesto di ricordare alcuni particolari della tragedia, in una rara dichiarazione List disse che non si aspettava tutto quel sangue, e che aveva dovuto lavorare duramente per pulire i pavimenti.
– Dopo la strage, List confermò che i resti del pranzo lasciati in cucina erano suoi (aveva fame) e che, dopo gli omicidi, si era messo a letto per poi scappare all’alba del giorno dopo, il 10 novembre.
– L’autopsia delle cinque vittime stabilì, al contrario di quanto affermato nella lettera, che solo Patricia era stata colpita da dietro. Tutti gli altri avevano visto John List che puntava loro una pistola e faceva fuoco.
– John List venne condannato a cinque ergastoli. Riguardo alla sua detenzione, ebbe a dire che considerava i 18 anni di latitanza come una liberazione condizionale anticipata, e che quindi era accettabile trascorrere il resto della vita in carcere.
– Lo psichiatra di John List diagnosticò un disturbo ossessivo compulsivo. John List non era in grado di esprimere rimorso perché sinceramente convinto del suo ragionamento: le imposizioni religiose e la personalità piegata da un’educazione soffocante e rigidissima avevano ristretto il suo campo di azione e di pensiero. Aveva razionalmente scartato il suicidio perché «sicuramente mi avrebbe mandato all’inferno, e non avrei più potuto rivedere i miei cari». Non aveva considerato la fuga dalla famiglia, perché contraria agli insegnamenti religiosi (occuparsi di moglie e prole).
–  John List vide la puntata di America’s Most Wanted e si complimentò con lo scultore per la sua perizia.
– In una breve biografia scritta in prigione, John List trovò lo spazio per ricordare che, un giorno di quarant’anni prima, la figlia Pat gli aveva fatto trovare una biscia viva in cucina, consapevole della sua fobia per i rettili, e aveva pure chiamato i fratelli perché assistessero alla scena.
–  John List è morto in carcere per le complicazioni di una polmonite, il 21 marzo 2008. Aveva 82 anni.
– Delores Hazel Miller, ex inconsapevole signora List, è morta nel 2017 a 82 anni. Nel suo ricordo non si fa cenno al secondo matrimonio, quello con Bob Clark.
– La casa dei List andò a fuoco per un incendio doloso nel 1972. Quella di oggi è, in buona parte, ricostruita ex novo.
– Non è mai stato confermato, ma dopo l’incendio circolò voce che il lampadario della sala da ballo, distrutto dal crollo del soffitto, fosse un Tiffany originale, valutato ai tempi 100.000 dollari, e che nessuno in casa se ne era mai reso conto. Al cambio di oggi, la cifra corrisponde a più di mezzo milione di euro.  Sufficiente per chiudere il mutuo e risolvere le pendenze contabili di John List.

 

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Questo testo è di Federico Ferrero, ed è distribuito con Licenza Creative Commons Attribuzione – Non commerciale – Non opere derivate 4.0 Internazionale.

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