Il talento di Mr. Gillou

di | 30 Marzo 2015

[Articolo apparso sulla rivista Tennis Magazine, numero di marzo 2015]

«Certo che rido, quando sento dire che il talento ce l’ha Tsonga. Io non avrò “mano” ma ho un talento immenso: vinco con trenta chili e venti ace a partita in meno!» (Gilles Simon)

Visto di spalle nella stanza dei giocatori, Gilles Simon pare il ragazzino della scuola tennis che ha vinto il premio della comitiva, un’ora di accesso alla players’ lounge. A memoria, solo Petr Korda era secco come lui, quantomeno era alto come uno struzzo. È martedì, il torneo sonnecchia ancora, l’ambiente è rilassato. Quando gli passano vicino, Raonic e Monfils gli assestano due pacche sulla scapola: lui perde di mano la Head, si schermisce chiudendosi nelle spallucce e ti chiedi come possa giocare lo stesso sport di quei due bruti. O di Federer, Nadal, Djokovic, Murray: oh, almeno una volta li ha castigati, tutti quanti. Andy lo aveva superato 12 volte di fila, fino allo scontro-vendetta di Rotterdam: «Con lui non è una questione tecnica, solo tattica. Entrambi giochiamo da dietro, amiamo difendere, riflettiamo molto in campo. Tra noi è sempre complicato chiudere un punto, purtroppo spesso ho finito con lo stancarmi per primo». Due volte ha spento il lume a Federer, altre due lo ha portato al quinto set; contro Djokovic fatica di più («Novak è un po’ diverso, non sempre ho chiarissimo quello che devo fare per metterlo in difficoltà, non ha più un vero punto debole») ma il terzo set è quasi un abbonamento*.

* Quasi un anno dopo questa intervista, Simon avrebbe trascinato al quinto set Novak Djokovic agli Australian Open 2016, togliendogli il ritmo e costringendolo a 100 errori gratuiti in 4 ore e mezza e 5 set di battaglia. Djokovic non ha mai commesso, prima e dopo quel match, un numero neppure simile di errori non forzati.

Personalità. Gilles Simon è la fulgida eccezione in un mondo di comunicati riciclati, di “sarà un match importante”, di “spero di fare bene”. I giocatori, alla stampa, dicono banalità ma non sono necessariamente sciocchi: difatti, lo hanno confermato come rappresentante nell’assemblea permanente dell’Atp per altri due anni, fino al 2016. Gilles ha lottato su tutti i fronti: perché gli Slam dessero più soldi ai perdenti nei primi turni (fatto), perché i tornei concedessero più accrediti ai giocatori, perché dappertutto ci sia un servizio incordatura che non ti chieda 30 euro a telaio, cifra digeribile per lui ma non per chi, col tennis, non si fa ricco. Un altro suo disegno di legge riguarda la riforma dei lucky loser: se ti fai male mentre sei già arrivato a un torneo, perché rinunciare al montepremi del primo turno, ai punti e pagarti pure le spese? L’emendamento Simon propone due jolly l’anno da spendersi in situazioni simili. Cose così. Simon a molti non piace, per Federer è un chiacchierone, ma simpatia e stima non sono figlie della stessa mamma.

Qualità. Simon ha una moltitudine di qualità eccezionali, chiacchiera a parte. Se sostieni che vinca senza armi letali “perché ha la testa”, si irrigidisce ed è giusto così. La testa ce l’hanno anche Inigo Cervantes e Guido Andreozzi, e pure le gambe, eppure restano a dividersi tremila euro lordi al challenger di Porto Alegre. Simon, che pure gli sterilizzati e sonnacchiosi addetti stampa del sindacato Atp chiamano il Bastian Contrario, è milionario. È stato numero 6 al mondo, si è qualificato al Master del 2008 sfiorando la finale. I francesi, così affezionati al mito del tennista bello e stiloso, sono anni che soffrono nel dover ammettere una sconfitta estetica: nell’era Open, solo un giocatore ha vinto più tornei di lui (certo, mai titoli troppo pesanti, ma sono comunque 12) ed è Yannick Noah, l’ultimo slammer di casa, con 23. Niente stop volley, solo punti.

Simon detesta le semplificazioni giornalistiche; molto probabilmente, detesta anche buona parte dei giornalisti. Per anni, si sono raccontate le – vere e talora presunte – gesta di Tsonga, Gasquet, Monfils, Llodra, anche quando non vincevano e lui sì. Non è solo una questione di dispettucci e preferenze dei media: non avere un servizio sparato con l’M1 Garand o un colpo da highlights per il sito dell’Atp gli è costato sicuramente più di qualche copertina negata. Che i capitani Forget prima, e Clement poi, gli abbiano preferito altri (Llodra e Gasquet) in due finali di Coppa Davis non solo per scelta tecnica, ma per qualche pregiudizio – ovviamente mai ammesso – sulle sue qualità, beh, è più di un’ipotesi. Del resto, la stampa non è più il quarto potere ma ha ancora una qualche influenza; e la stampa, per anni, Gilles Simon non se l’è proprio filato.

È un ragazzo dalla favella vispa, ama parlare ma non sopporta le narrazioni: non tollera che la stampa debba inventarsi delle storie, Federer è il fuoriclasse elegante che gioca e non suda mai, Nadal è il toro tutto muscoli e sbuffi, Gasquet è un artista incompreso, Ferrer vince perché ha voglia di allenarsi… E sì che qualche reporter facilone ci crede veramente. Chi conosce il gioco, però, sa che sono balle. Ma piacciono: rendono la vita del cronista più semplice, offrono al pubblico una commedia con personaggi da amare e odiare ben calcati, il talentuoso, il lavoratore, l’attaccante impavido, il difensore codardo. Avanti siore e siori, ce n’è uno per tutti i gusti, anche se non è vero.

Giorni fa, sull’Équipe, Gillou ha tenuto una lezione sul talento, mascherata da intervista. Gliene chiediamo conto (sarà un caso?) allungati su una chaise longue da psicoterapeuta nella saletta di svago di uno dei tornei nelle mani del team Caujolle, l’Atp di Marsiglia. Lui è seduto sullo sgabello di Freud, risponde concentrato, appoggiato al bastone-racchetta. «Non so da voi, ma in Francia la questione del talento è posta in maniera scorretta (uh, sapesse qui, ndA). Io non ho mai detto, per esempio, che Michael Llodra non abbia talento. È un giocatore estremamente dotato. Ma un tennista che gioca delle volée super come lui e, allo stesso tempo, sbaglia dritti elementari, non può essere ritenuto un talento assoluto. Stessa cosa per Feliciano Lopez: troppe persone confondono il talento con il cosiddetto bel gioco. E il bel gioco, non so perché, viene identificato col serve&volley». Già, perché? L’eleganza, il gesto bianco è oggettivamente migliore del gioco da fondocampo, o lo è solo culturalmente? Eppure, un servizio-volée di Feliciano appaga la vista: perché, allora, non considerarlo espressione limpida del talento, più di un pallonetto lunare? Simon, allergico alle scontatezze, è la persona giusta cui domandarlo. «Perché Lopez è un giocatore aggressivo al servizio, tocca molto bene la palla al volo. Però da fondo perde completamente il suo atteggiamento e diventa puramente difensivo: gioca solo il rovescio slice, arrota il dritto, di rimbalzo non fa mai un vincente. Smettiamola, di dire che un giocatore ha o non ha talento. Ciascuno ha il suo. Alcuni ne hanno più di altri. Mi hanno detto che sono un provocatore: ma se si dice che Lopez ha talento perché va a rete, reagisco. Come mai, con tutto il talento che ha, è così lacunoso in altre situazioni di gioco?»

I talenti di Gilles sono tanti, eloquenza a parte. È veloce, è resistente. Ha una tecnica pulita, riesce mantenere lo scambio profondo sbagliando pochissimo, a velocità bassa, media, alta. È intelligente, quasi mai cicca una scelta. Può piazzare la palla più o meno ovunque, trova angoli stretti e lungolinea da entrambi i lati, qualità fondamentali per chi ama dire di sé di essere un giocatore «di reazione», l’acqua che si adatta alla forma del contenitore e che finisce per affogarti.

Quando batte uno come Marcantonio Berdych (cioè piuttosto spesso) ci riesce perché lo costringe ad abbassare mille volte le ginocchia, a giocare palle sotto il livello della rete, a colpire in situazioni di scarso agio, lo spedisce a colpire in corsa di qua, poi di là, poi di qua. Al quarto avanti-e-indré il campo è aperto, o c’è un contropiede facile per ucciderlo. Se si è trovato ad affrontare Nadal, invece, Simon non lo ha mai “attaccato sul rovescio”, come qualche coach d’accatto consiglierebbe. Avrebbe fatto un punto su dieci. No: è rimasto a fondo ma si è messo ad anticipare e tirare più del solito, non concedendo alle palle avvelenate di Rafa il tempo di saltare. Come Niki Lauda nei Gran Premi, ha calcolato le probabilità e si è preso un buon 20% di rischio in più rispetto allo standard. Giusto. A Madrid, nel 2008, lo batté così. A Roma, l’anno scorso, lo trascinò al terzo con 40 e più vincenti: sulla terra, al Foro, con l’umidità del Tevere, capito? Con tutto il suo arsenale, Federer c’è mai riuscito? Un messaggio per quelli che “Simon è un pallettaro”: «Ci sono giocatori che fanno fuoco e fiamme per un’ora e mezza, poi calano. Se riesco a restare in partita a sufficienza, so che prima o poi, di là, succederà qualcosa» (quando non ci riesce, come a Rotterdam a febbraio, Berdych vince 6-1 6-2 in 50 minuti).

A ricordargli i suoi successi contro i Big Four – a proposito di approssimazioni giornalistiche – e le partite perse lottando fino all’ultima palla, Simon non vorrebbe darlo a vedere ma un po’ si inorgoglisce. Gli scappa un mezzo sorriso arricciato sotto il naso. Argomenta che un conto è sapere come mettere in difficoltà un giocatore, altro è avere le armi per farlo. Il dritto di Rafa sul rovescio di Roger è l’arma perfetta? Sì, lo sanno anche le pietre. Ma chi, al mondo, sa tirare quella frullata col gancio mancino? Rafa e basta. «Non è facile definire la mia migliore qualità sul campo. Generalmente so che si dice che Simon è uno forte tatticamente, che regala poco, cose così. Ma in realtà cosa significa? Tatticamente tutti ci siamo visti giocare migliaia di volte, in questi anni, non credo esistano segreti per nessuno. Piuttosto, la domanda è come mai io riesca a fare certe cose un po’ meglio della maggioranza degli altri e un po’ peggio di alcuni altri ancora, cioè quelli che mi stanno davanti (attualmente sono 13 in tutto il pianeta, ndA). Ma la risposta non ce l’ho, proverò pensarci bene quando avrò smesso. Comunque, credo che una mia forza sia il tempo: riesco a tirare forte pur… non avendo forza, perché colpisco al momento giusto. Uso la velocità della palla che arriva». Già, con i colpi piatti è più facile: leggermente più complesso è spiegare come possa tenerne tanti in campo.

Simon ragiona e, spesso, ha ragione. Quando un attaccante si tira un passante di rovescio sui piedi, il pubblico medio tende a essere accondiscendente: càpita, ha sbagliato. Se Ferrer fallisce una smorzata, parte la grancassa dei luogocomunisti: ecco il fabbro, toh il contadino prestato al tennis, il corridore con la mano quadrata. Ma poi, chi decide che la qualità di uno spagnolo arrotatore col dritto sia inferiore rispetto al moschettiere col rovescio classico? Gilles ha una sua risposta ed è affascinante: «Un’altra tesi precostituita è che Nadal sarebbe un picchiatore grezzo. Ma qualcuno mi spiega perché, se Rafa tira un dritto vincente tre metri fuori dal campo, il suo è il colpo di forza di un muscolare mentre, se Gasquet fa lo stesso colpo dalla stessa posizione, carico di topspin ma con il rovescio a una mano, allora quella diventa la prova del suo immenso talento?»

Più ci parli, più capisci perché nessuno, nel mondo del tennis, ha un archivio mentale di tutti i suoi avversari completo, veritiero ed efficace come quello di Gilles Simon. Ma si diceva di Gasquet: è innegabile, non c’è astio personale ma Gilles ha un conto aperto. Neanche tanto con lui, quanto – arieccoci – con la stampa. Secondo lui, colpevole di aver messo su da vent’anni a questa parte un ufficio comunicazione gratuito per lanciare un fantapersonaggio: Fenomeno Gasquet. Un lavoro iniziato già con la copertina su Tennis Magazine del febbraio 1996: “Il campione che la Francia aspetta?”, ci si chiedeva mentre un ragazzino di nove anni preparava un rovescio plastico e suadente come quelli di Henri Leconte (e non era Simon). Gasquet è narrato, da sempre, come ben sapete: il predestinato cui sfiga, pigrizia e un po’ di handicap atletico hanno impedito una carriera alla Federer. Gillou, che si porta dietro un secondo nomignolo, Poussin (pulcino) dai tempi degli allenamenti all’US Fontenay-sous-bois, un circolo periferico a pochi chilometri dalla tangenziale est di Parigi, non ha mai accettato la versione ufficiale: «Non è vero che la carriera di Gasquet è stata di molto inferiore alle attese… Forse alle attese di chi ne scriveva come del nuovo numero uno al mondo. È molto forte, chi lo nega, ha almeno un colpo eccezionale. Ma sono i giornalisti, siete voi che avete deciso che avrebbe dovuto vincere Slam a ripetizione e quindi, non avendo mai fatto neanche una finale, ha fallito. Ma io non sono d’accordo». Eh. Come contraddire Mister Freud, ancora più da distesi sul lettino?

Al circolo della sua cittadina, nel 1991, la sua maestra, Celine Duvére, gli aveva sistemato la tecnica che ancora oggi è rimasta identica: i passetti di avvicinamento alla palla con i polsi abbassati sul rovescio, il dritto ampio per compensare la mancanza di spinta. Tra l’altro, casa Simon è ancora lì. Lui no: per difendere i dieci milioni di guadagni da un fisco particolarmente vorace come quello parigino ha fatto la scelta, una volta tanto non controcorrente, di arricchire la colonia di tennisti francesi con residenza a Neuchâtel. I Simon non erano degli sportivi, mamma ginecologa e papà, un bel signore brizzolato con gli occhi grigioverde, dirigente nel ramo assicurativo; ma assecondarono il desiderio di Gilles di non imitare il fratello maggiore, Gian Maria, negli studi al politecnico. Fu la sua fortuna: papà e mamma non tennisti e inclini al “fatti una posizione”, ma disposti ad accontentare e spesare l’unica passione del figlio.

Madame Duvére lo ammette ancora oggi, non era estasiata da quel nanetto. Ma sapeva fare il suo mestiere e il campo parlava: il pulcino faceva incrociare le punte a ragazzi che erano il doppio di lui. Esattamente come negli anni a venire. Torna in mente il libretto nero di Brad Gilbert, che alla voce “Wilander” aveva scritto: “Nessun colpo speciale. Vince partite”. Simon vinceva, Simon vince. Quando era arrivato a Fontenay dal profondo sud di Nizza, dove il padre lavorava in una compagnia di riassicurazione, i ragazzi della prima squadra non volevano credere che fosse lui il numero uno dell’agonistica. «Sarà suo fratello minore», aveva pensato vedendolo palleggiare Virgile Boissavy, fortissimo tra gli under e nullo da maggiorenne. Stessa opinione per mamma Fft: la federazione dovette arrendersi a un faldone di vittorie alto così, prima di dare a Simon un po’ di attenzione, un finanziamento tardivo e di affiancargli un coach.

La verità è che i francesi provarono pure a ignorare che, il 20 ottobre 2008, il computer dell’Atp sputò fuori la classifica e, al numero 10, c’era Gilles Simon. Non Tsonga (14), non Gasquet (15), non Monfils (16) ma Simon. È fin troppo facile fargli notare che il virus passò le Alpi. I suoi risultati di quell’annata scatenarono un festival di sparate da Oscar: «Se Simon arriva tra i primi dieci, ditemi perché non ci dovrebbe arrivare Seppi». Oppure: «Simon tra i primi dieci? E perché non Bolelli, che gioca cento volte meglio di lui?» Ma lui è vaccinato: «Sono cresciuto leggendo e sentendo che gli altri francesi erano molto più bravi di me, solo perché avevano un tennis più spumeggiante e facile da “vendere” del mio. Ho sempre trovato ingiusto, oltretutto, che di me si parlasse come di uno che tirava piano e sfiniva gli avversari, perché non è vero». Infatti non è vero. Come non è vero che in Italia ci fosse qualcuno bravo come Simon, con buona pace dei narratori.

Riservato ma non timido, Simon ama riflettere e «dire le cose come stanno, essere libero: non importa essere neutrale ma essere franco, spiegare perché la si pensa in un certo modo». Ecco, con una maestra donna per sei anni e la dichiarazione dell’estate 2014, ai limiti dell’imbarazzo, su Amélie Mauresmo coach («Mai mi farei allenare da lei») è inevitabile chiedergli conto di eventuali misoginie. Jo Tsonga aveva appena finito di esternare il suo dispiacere per il fatto che un’intelligenza come quella di Amelia fosse finita a vantaggio di uno straniero – Murray – che Simon gli fece il controcanto: «Io non l’avrei mai scelta. L’ho vista al Queen’s che si guardava tutte le partite, come è normale visto che non conosce i giocatori. A trent’anni, non posso permettermi di perdere tempo». E quindi? «Ovviamente non ho disprezzato la Mauresmo, né so dire se resterà un caso isolato o se farà scuola. Però non ho mai parlato a fondo di tennis con lei, sebbene la conosca e sappia che è competente. Ho detto che non farebbe al caso mio, non del mondo del tennis maschile». Al caso di Simon fa un coach che pochissimi giornali e tivù si spendono a conoscere, Jan De Witt. Un tedesco che allenava Nieminen e Ito, capace di convincere Simon a smettere di girare il mondo da solo dopo il divorzio con Thierry Tulasne. Gilles lo chiama “ordinatore”, perché a volte anche lo stratega numero uno al mondo perde la visione d’insieme e deve avvalersi di un generale esperto. Dice che De Witt è tra quelli (pochi) che sanno esattamente come affrontare ciascuno dei primi 100 del ranking e che per lui è importante, quando perde un match, sapere di non avercela fatta non perché non ha fatto le cose giuste, ma semplicemente perché non è stato in grado di farle sufficientemente bene, o abbastanza a lungo. Jan è la persona giusta per condividere discorsi che, in una telecronaca, non sta bene fare perché troppo lontani dalle storie posticce dei nobili contro gli operai. Che gli altri continuino a raccontare del brutto anatroccolo, peggio per loro.

A proposito di controcorrente: Simon aveva annunciato – era la fine del 2013 – che l’oligarchia dei quattro sugli Slam stava per finire, sicché sarebbe stato opportuno tenersi in forma perché, nonostante avesse già 29 anni, riteneva che le occasioni migliori di fare il colpaccio in uno Slam fossero davanti a sé e non alle sue spalle. Sorrisero in parecchi.

Poi Wawrinka vinse in Australia, Cilic e Nishikori si giocarono la finale agli Us Open e non ridacchiò più nessuno, anche se lui ha marcato visita e un quarto di finale agli Aussie Open 2011 rimane il suo miglior torneo major. Quindi? «Continuo a pensarla così, anche se non ne ho ancora approfittato. Ci sono stati degli anni in cui Rafa, Roger, Nole e Andy arrivavano sempre in semifinale negli Slam. È stato difficile allenarsi, giorno dopo giorno, sapendo che gli obiettivi principali dell’anno erano blindati in partenza. Per un francese, era ancora peggio: pur essendo il Roland Garros il torneo più aperto dei quattro, negli ultimi dieci anni Nadal ha perso una partita…»

Cinque giorni dopo la chiacchierata, Gilles Simon ha vinto il torneo di Marsiglia, a otto anni dalla prima volta, soffiando il titolo in finale all’amico Monfils. Gael, il grande Gael, il funambolico sparatutto Gael, ha giocato 22 finali e ne ha vinta, sì e no, una su quattro. Ed essendo strambo ma non stupido, ha firmato un contratto con Jan De Witt. Ora anche lui si allena con il generale, benché «in fondo anche io gli stia facendo un po’ da coach: gli ho detto chiaramente che può vincere molto di più ma deve smettere di giocare e di programmarsi a caso». Questo è parlare chiaro. Come Feliciano Lopez: ricevuto il ritaglio dell’Équipe, dopo la finale gli ha spedito un tweet di complimenti acidi: «Congratulazioni per la vittoria a Marsiglia. Gran talento, questo ragazzo!»

Se forse è vero che giocare d’attacco non fa di un tennista un talento, certamente è vero che giocare serve&volley non rende per forza intelligenti.

 

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.